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Rileggiamo Keynes e Kuhn per tornare a crescere. L’analisi di Ajassa

Oltre a Keynes bisognerebbe rileggersi Kuhn. Dopo sette anni di crisi ciò che appare evidente in Italia e anche in Europa non è solo un problema economico di crescita. C’è qualcosa di più. Nelle letture più attente ciò che si delinea sono le ripercussioni di onde più profonde. Le onde lunghe del mutamento di due paradigmi fondamentali che si chiamano globalizzazione e digitalizzazione. Il cambiamento dei paradigmi si intreccia al problema di crescita. L’effetto è quello di rendere ancora più complessi gli scenari futuri dell’occupazione e del lavoro. E ribadire l’urgenza di una riforma.

Le lezioni di Keynes ci possono aiutare nel guardare a quello che in Italia e anche in Europa non si esita più a identificare come il ripetersi periodo dopo periodo di un deficit di domanda, e soprattutto di investimenti. Una successione di equilibri di sottoccupazione appesantita da un’inflazione troppo bassa se non dai rischi di una incipiente deflazione. In questo contesto le lezioni del passato potrebbero aiutare nel governo del ciclo. Potrebbero pure suggerire qualcosa nella ricerca di una più efficiente assegnazione degli strumenti agli obiettivi di sviluppo e di stabilità. Oggi in Europa la politica monetaria si fa carico di un lavoro enorme, difficilmente sostenibile in una prospettiva di lungo termine. Negli USA, per ripristinare sviluppo e stabilità negli ultimi sei anni sono state messe in campo tre fasi di “quantitative easing” monetario, ma anche qualcosa come 62 punti di PIL di spesa pubblica finanziata in disavanzo. Senza seguire gli eccessi americani, una via europea ad un ribilanciamento tra le due leve fondamentali della politica economica andrebbe cercata. Il piano Juncker di investimenti pubblici europei potrà rappresentare una prima svolta virtuosa in questa direzione.

Fin qui Keynes. Poi serve il pensiero di Thomas Kuhn, lo studioso dei cambiamenti di paradigma che sono alla base delle rivoluzioni scientifiche1. E non solo di quelle. Come insegnava Kuhn, i paradigmi non cambiano spesso, ma quando accade le trasformazioni risultano assai profonde e durature. E le trasformazioni si impongono anche a chi prova a negare il cambiamento o a destinarlo solo a qualcun altro. Nei paesi europei gli ultimi tre lustri hanno visto dispiegarsi gli effetti del nuovo paradigma della globalizzazione. Da fisso, il capitale produttivo è divenuto assai mobile, a volte ben più mobile del lavoro. Sui mercati e nelle legislazioni la reazione al mutamento del paradigma è stata diversa. In paesi come la Germania, seppur con un processo di riforma lungo, il cambiamento è stato metabolizzato nella forma di una risposta complessivamente unitaria, di sistema. Altrove ha prevalso la segmentazione e la difesa delle posizioni degli “insider” a dispetto a chi sta fuori, a cominciare dalle nuove generazioni. È il caso dell’Italia, del nostro mercato duale del lavoro segnato da eccessi di segno opposto di rigidità e di precarietà.

Negli ultimi sei anni la reazione sbagliata al cambiamento di paradigma rappresentato dalla globalizzazione si è intrecciata con la spirale della recessione economica. La risultante è stata micidiale. Per citare un paio di dati, il numero totale degli occupati è sceso in Italia del cinque per cento. È un calo importante, se paragonato a quanto accaduto in altri paesi europei e se valutato in relazione al basso tasso di partecipazione degli italiani al mercato del lavoro. Ma è un calo relativamente modesto se lo confrontiamo alla caduta di ben trentatré punti che nello stesso periodo è stata registrata in Italia dal numero dei giovani dipendenti con età compresa tra i 15 e 34 anni e titolari di un contratto a tempo indeterminato. Meno lavoro per tutti. Molte diseguaglianze in più e molte prospettive in meno per i giovani. Quanto accaduto sino ad oggi più che giustifica l’urgenza di una riforma che serva per il rilancio della competitività economica e per ricucire la coesione tra le generazioni.
La stessa riforma appare ancor più necessaria se si considera quanto potrà ancora accadere nei prossimi decenni. Parliamo degli effetti della applicazione su larga scala del paradigma tecnologico della digitalizzazione. Un cambiamento che, secondo autorevoli e recenti studi, metterebbe a rischio almeno la metà dei posti di lavoro attualmente esistenti in Italia come in altri grandi paesi.

Occorrono riforme per contrastare il deficit di sviluppo e per governare il segno dei nuovi paradigmi. Non è mai troppo tardi.


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