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Sull’art.18 vince riformismo di responsabilità nazionale

Il Pd di Matteo Renzi, amalgama mal riuscito sceso a 100mila iscritti dai 500mila e passa di qualche anno fa, non vedrà nessuna scissione nonostante qualche mal di pancia, grazie al concetto che il principio è il partito e la sua unità.

Parallelamente, il governo del suo Premier Matteo Renzi completerà l’opera avviata nel 2011 da Mario Monti: demolire le pruriginose conquiste di civiltà sulla dignità del lavoro e sulla libertà sindacale, portate dallo Statuto dei lavoratori dentro le fabbriche, grazie al concetto che, prima di tutto, c’è la responsabilità nazionale che i comunisti, lo ha ricordato Pier Luigi Bersani, hanno in vena.

Trattasi di concetti, il principio è il partito e la responsabilità nazionale, che gli ex-comunisti hanno, appunto, in vena, dal 1944, da quando Palmiro Togliatti, su ordine di Stalin, avviò con la svolta di Salerno, spiazzando il fronte antifascista fermo sulla pregiudiziale repubblicana e anti-monarchica, il governo di unione nazionale del Maresciallo fascista Pietro Badoglio e poi, in nome della pacificazione nazionale, emanò nel ’46 il decreto di amnistia per i reati compiuti da ras e gerarchi, da giudici e collaborazionisti del Regime e infine nel ’47, votò in nome della pacificazione religiosa, l’art. 7 con cui i Patti Lateranensi furono, dietro richiesta della Chiesa, inseriti nella Carta Costituzionale. Scelte pienamente condivise e controfirmate, il decreto di amnistia e l’art.7, dal leader della Dc, Alcide  De Gasperi.

In quel triennio ’44-’47 si gettarono le basi culturali del catto-comunismo, ossia dell’alleanza di potenza tra Pci e Dc, sotto la protezione del Vaticano, di cui Togliatti e De Gasperi sono stati a un tempo artefici e protagonisti dei governi di unione sacra che ispireranno negli anni ’70, in epoca di compromesso storico, i governi di solidarietà nazionale a supporto di emergenze o di natura economica o di lotta al terrorismo.

Quarant’anni dopo, la storia si ripete. Conseguita, abilmente, la mutazione genetica dell’ex-Pci, Renzi può togliere di mezzo, gentilmente, in nome del libero mercato, sempre più libero, che tutto aggiusta, l’intralcio di un diritto, portato in fabbrica dal giuslavorista indexGino Giugni, per ogni lavoratore dipendente di non essere licenziato, art.18, senza giusta causa e del metodo, introdotto dallo Statuto, della concertazione con le parti sociali.

Parallelamente alla potatura di quanto innestato nel sistema dal riformista socialista Giugni, il moderno riformista Renzi immette nel sistema il contatto unico, cosiddetto a tutele crescenti, che obbliga ogni nuovo e giovane occupato a tre anni di precariato prima di essere assunto regolarmente.

Perché il Pd rifiuta che i diritti di un dipendente siano affidati alla terzietà di un giudice, nel caso della risoluzione di un punto delicato come un conflitto di lavoro, per essere consegnati nelle mani della parte sociale dominante? Se non difende il rapporto di lavoro un partito che si professa riformista come il Pd e che si richiama alle riforme ogni quarto d’ora, a che cosa serve? Certo il riformismo socialista di Giugni è agli antipodi del riformismo vigente nel Pd, di responsabilità nazionale.

Ecco, forse, spiegato l’improvviso calo degli iscritti del Pd che arriva dopo il trionfo che, forse, tale non è, alle recenti elezioni europee, e non politiche, visto che gli 11 milioni di voti pari al 41%, spuntati alle europee sono inferiori al 42% dei non votanti, passati dai 17 milioni e 600 del  2009, ai 18 milioni e 400 mila del 2013, ai 23 milioni e 220 mila del 2014: due segnali di un evidente e trascurato sintomo di malessere: la crescente disaffezione della gente per il chiacchiericcio della politica monopolizzata del catto-comunismo dominante per l’assenza di una valida e credibile proposta culturale e politica di alternativa laica, socialista e liberale.

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