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Vi spiego che cosa cambia con Fiat a Wall Street

Pubblichiamo grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, l’articolo di Riccardo Ruggeri uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Nelle scorse settimane, commentando la conferenza stampa di Maranello, ove Marchionne (seduto) ha formalizzato il licenziamento di Montezemolo, avvenuto un paio di giorni prima (in piedi) a Monza, vi avevo anticipato la giustezza della decisione. Montezemolo, in Fiat aveva sempre avuto uno status curioso, era sì un manager, ma pur non essendo un membro (di sangue) della Famiglia Agnelli, in qualche modo ne faceva parte, era quello che i romani chiamavano familiaris.

Come noto, nel business contano solo i numeri, i suoi in Ferrari, straordinari, lo collocano nella fascia alta dei grandi manager italiani. Curiosamente, i media non gli hanno mai dato il riconoscimento che meritava. Nell’ottica della quotazione a NY di Fca i numeri esaltanti di Ferrari dovevano far dimenticare quelli imbarazzanti di Fiat, in Europa e ora anche in Brasile. Montezemolo era quindi troppo ingombrante col processo che si era avviato, motivi tattici, logici, hanno consigliato di metterlo da parte.

Il processo si conclude il 13 ottobre a New York, col suono della mitica campanella del Nyse: il batacchio certificherà la trasformazione di una società famigliare come Fiat, governata per quattro generazioni dagli Agnelli, in una public company americana. Anche per me, si conclude un ciclo, da molti anni scrivo su Fiat in un’ottica di investitore (come ovvio col supporto tecnico-professionale-culturale dell’essere stato un ex), e proprio il 13 ottobre prossimo uscirà «Fiat, una storia d’amore (finita)». Da anni aspettavo il momento dell’Ipo (initial public offering), per avere conferma di ciò che scrivo fin dal 2009: l’establishment americano, quello che aveva allora deciso di salvare, con i quattrini dei contribuenti americani e la sottomissione forzosa dei sindacati Usa, la fallita Chrysler e, mentre c’era, pure la Fiat Auto, non potesse non rIportare in terra americana l’investimento fatto. Quando ci sono di mezzo i quattrini gli americani non scherzano.

Penso che, seppur con una semplificazione giornalistica, possa essere interessante per il lettore conoscere le modalità tecniche con le quali, in genere, si svolgono questi processi. Il primo atto è la valutazione costi-benefici della quotazione, da fare con un Advisor strategico, sulla base di un suo studio preliminare. In questo modo, è possibile determinare le modalità dell’offerta e i tempi di quotazione. Poi si individuano gli intermediari, che affiancano l’offerente nell’Ipo, questi detti Global Coordinators hanno il compito di promuovere i contatti tra impresa e investitori istituzionali, valutare l’azienda, certificare i requisiti per l’ammissione all’Ipo, etc. L’Ipo viene condotta da Underwriters, una specie di sindacato di collocamento dei titoli sul mercato. In certi casi, questi si riservano pure l’opzione di collocare un’ulteriore frazione del capitale, per esempio un 10%, detto in gergo «green shoe».

L’azienda, valutata con i diversi metodi economico-finanziari, avrà una forcella di prezzo, rIportata nel prospetto informativo, con dati dettagliati sui metodi contabili usati, le future strategie, le prospettive di business, le eventuali ristrutturazioni, il riposizionamento strategico, la focalizzazione per area di prodotto mercato, etc. A questo punto, i Global Coordinators organizzano il «Road Show», i più sofisticati, a seconda dei business, trasformano il CEO in una specie, ieri di Wanda Osiris, oggi di Lady Gaga, managerialmente attrezzata, con paillettes e borchie al punto giusto, per convincere la comunità finanziaria internazionale all’investimento. Insieme agli «Underwriters», raccolgono le potenziali adesioni di investimento, il prezzo definitivo viene deciso, congiuntamente, alla chiusura dell’offerta, un attimo prima della quotazione in borsa. A seconda di come il titolo si comporta nel primo periodo di vita, gli «Underwriters» intervengono sul mercato per sostenere-stabilizzare il corso.

La logica sottesa all’Ipo è il futuro, si tende ad enfatizzare gli aspetti positivi del business, piuttosto che i risultati del passato (in questo senso Fca sarà avvantaggiata), la tentazione di buttare, come si dice, il cuore oltre l’ostacolo è spesso presente. In questo caso, Elkann e Marchionne hanno deciso che il Road Show avvenga dopo il 13 ottobre e che sia rapido (secondo Marchionne due cambi di biancheria bastano). Personalmente lo interpreto come un messaggio di sicurezza che inviano al mercato. Adesso è chiaro perché è anni che sostengo che Marchionne, in possesso di un’alta managerialità di tIpo societario-finanziario, fosse la persona giusta per questa operazione, che si avvia alla conclusione. Un tIpo di managerialità che nulla aveva a che fare (come veniva spacciato dai media e dagli esperti) con gli aspetti di innovazione prodotti, industriali, tecnologici, produttivi, alla base di Fabbrica Italia. Occorreva preparare un contenitore societario-finanziario perfetto, dargli una strategia di respiro internazionale, mantenere quello che serviva, espellere il superfluo, e lui l’ha fatto, con il giusto tasso di cinismo richiesto. Gli investitori che hanno creduto a questa sua specifica professionalità, tra i quali mi colloco, gliene sono grati, avendo avuto un interessante ritorno sugli investimenti fatti.

In quest’ottica, risulta evidente che la sostituzione di Montezemolo, non con John Elkann, ma con Marchionne, era doverosa. Nel momento in cui la Famiglia ha scelto il protocollo Marchionne, ha automaticamente perso per sempre la maiuscola, è diventata una famiglia molto benestante (il valore economico diviso per 200-300 nuclei famigliari comunque è quello che è), che funge da azionista di riferimento. Non lasciamoci ingannare dal trucchetto dei doppi voti (come previsto dalla legislazione olandese), la Famiglia, al momento giusto, potrà vendere, in parte, o tutta la sua partecipazione, e Exor sarà una normale holding di private equity.

Si verificherà pure (avendolo lui stesso dichiarato) la successiva uscita di Marchionne, per un motivo ovvio: ha costruito il contenitore, ha dato all’azienda una strategia, ora Fca ha responsabilità ben chiare, deve progettare, costruire, vendere automobili nel segmento Premium, il più difficile. A parte che questo non è il suo mestiere, oltretutto credo Marchionne non sia neppure il tIpo da anelare a un tal ruolo. Ve lo assicuro, è un ruolo molto noioso, a meno che uno non abbia avuto, fin da adolescente, il fuoco sacro, tipico dei «car guy». Esaminando i concorrenti ormai, questo fuoco, lo trovi solo negli uomini VW e Toyota, e non per nulla sono leader assoluti: fanno auto che appartengono a un altro pianeta.

Una domanda si pone il cittadino: quale sarà il nuovo rapporto Fiat-Italia? Ovvia la risposta: l’Italia resta un mercato, ma il «Terra, Mare, Cielo» dell’Avvocato è scomparso, sostituito dalla crudele definizione dell’Economist: «Fiat? Una casa d’auto brasiliana con alcune fabbriche in Europa». Il peso politico degli Agnelli in Italia ridimensionato: qualche stabilimento, la partecipazione in Rcs, la Juventus. Per chi studia i comportamenti organizzativi delle leadership, Fca è stato un affascinante business case, e per me pure la fine (serena) di un amore durato 80 anni. Meritava di essere raccontato in un libro. Ho cercato di farlo.

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