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Bruxelles, ecco chi è il vero boss della Commissione Juncker

Pubblichiamo grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, l’articolo di Tino Oldani uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Quando c’era il vecchio Pci, il senatore Napoleone Colajanni, esperto di economia e autentica miniera di battute sarcastiche perfino sui suoi compagni di partito, era solito dire: “In politica la propaganda non è reato, ma è da stupidi crederci”. Parole che mi sono tornate in mente ieri, quando ho letto l’intervista a Repubblica di Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari europei. Per dimostrare che l’Italia ora conta di più in Europa, grazie al premier Matteo Renzi e al suo impegno di sottosegretario, Gozi dice. “Abbiamo lavorato per avere un peso maggiore ai vertici della Commissione Juncker: abbiamo 20 italiani nei gabinetti contro i 14 di quella precedente , con un capo e quattro vice in portafogli economici, un senior advisor e un portavoce. Insieme alla nomina del Garante europeo per la protezione dati, Giovanni Buttarelli, dimostriamo che a Bruxelles si parla sempre più italiano, speriamo anche nel cambio delle politiche”.

Quanto al cambio delle politiche, la frecciata di Jean-Claude Juncker contro Renzi (“Non siamo una banda di burocrati2), in risposta a un’accusa lanciata dal premier italiano pochi giorni prima, sembra lasciare poche speranze. Non solo.

Il fatto che Gozi si vanti per un presunto maggior peso dell’Italia nella burocrazia europea, non solo è contraddittorio rispetto alle tesi di Renzi, ma è pure smentito dai fatti: l’Italia ha sì ottenuto qualche posto in più rispetto alla Commissione Barroso, ma non in quelli decisivi.

L’unico capo di gabinetto italiano è Stefano Manservizi, 60 anni, ex capo di gabinetto di Romano Prodi e di Mario Monti, fino a pochi giorni fa responsabile dell’ufficio Ue ad Ankara: burocrate stimato, nei prossimi cinque anni lavorerà a fianco di Lady Pesc, Federica Mogherini, ma avrà ben poche possibilità di influenzare altri settori. Dei quattro vicecapi italiani, uno solo lavorerà in un gabinetto importante, quello del vicepresidente lettone Valdis Dombrovskis (Euro e dialogo sociale), che si è scelto un capo gabinetto finlandese, ma non ha ancora indicato il nome del vice italiano. Gli altri tre vice italiani sono Elisabetta Siracusa (Agricoltura), Giulia Del Brenna (Ricerca, scienza e innovazione) e Ruth Paserman (Occupazione, affari sociali e mobilità del lavoro). Poltrone di contorno.

Non ci sarà invece nessun italiano in strutture chiave della Commissione, quali: Commercio, Concorrenza, Industria, Trasporti, Politiche Regionali. E nessuno parlerà italiano neppure nella squadra del vicepresidente Jyrki Katainen (Lavoro e crescita), considerata tra quelle strategiche.

Ancora una volta, la vera dominatrice della burocrazia Ue è Angela Merkel, che ha piazzato dirigenti tedeschi di sua fiducia nei gangli veri del potere della Commissione: cinque capi di gabinetto (lo stesso numero che aveva nella Commissione Barroso), 12 vicecapi di gabinetto e una ventina di alti dirigenti. Un’impresa resa più facile dall’altrui debolezza politica: per i commissari Ue avere un capo di gabinetto tedesco è considerato fondamentale per avere un dialogo quasi diretto con la Merkel.

Com’è ovvio, tra i capi di gabinetto Ue, spicca quello del presidente Juncker: si tratta del tedesco Martin Selmayr, 44 anni, uomo di fiducia della Merkel, che a Bruxelles ha fama di lavorare 24 ore su 24, è definito un “work alcoholic” (drogato di lavoro), parla tedesco, francese e inglese, ma conosce anche spagnolo, italiano, russo e polacco. È entrato nei palazzi di Bruxelles dieci anni fa, dopo una brillante carriera nel settore privato come consulente legale europeo del colosso editoriale tedesco Bertelsmann. Ha iniziato come portavoce della commissaria lussemburghese Viviane Reding (Giustizia), poi è diventato capo di gabinetto della commissione Giustizia, da cui nel marzo 2014 ha preso un congedo temporaneo per guidare la campagna elettorale di Juncker. Che ne dovesse diventare il capo di gabinetto, era dunque scontato.

A Bruxelles, Selmayr è considerato un uomo di potere al massimo livello. Gli altri alti burocrati lo rispettano, ma ancor più lo temono perché il suo parere è decisivo in tutte le nomine. E nelle riunioni nessuno si sbilancia se non dopo che lui ha preso la parola per spiegare il suo punto di vista, sul quale ovviamente tutti convergono. Il Financial Times ha visto la sua longa manus anche nella scelta dei commissari e nella definizione delle rispettive competenze.

In alcuni casi, perfino i commissari Ue contano meno di Selmayr. L’ha dovuto sperimentare a sue spese la svedese Cecilia Malstrom, commissaria al Commercio. Prima dell’audizione davanti al Parlamento europeo, aveva messo per iscritto le risposte alle domande dei deputati. Ma quella sul Ttip, a cui si era detta favorevole, gli è stata cambiata da Selmayr, senza che lei ne fosse informata, su un punto chiave, quello della clausola Isds (l’arbitrato investitori-Stati). Recitava l’aggiunta: “I meccanismi per risolvere le dispute tra investitore e Stato non saranno parte dell’accordo”. Esattamente ciò che aveva chiesto la Merkel per depotenziare il Ttip rispetto alle pretese Usa. Gozi se ne faccia una ragione: a Bruxelles il potere parla tedesco.

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