Ho sempre guardato con estrema diffidenza alle “intrusioni” legislative in materia di rapporti di lavoro, ritenendo che le migliori soluzioni possibili non possono che essere il frutto del ruolo attivo e della condivisione degli “attori” sociali rappresentativi degli interessi in campo.
Semmai, ho ritenuto e ritengo che alla Legge possa essere riservato in materia un compito di “sostegno” a normative e regolamentazioni contrattuali a carattere generale per consolidarle e generalizzarle o per renderle universalmente fruibili da lavoratori e aziende in ogni posto di lavoro.
Quando l’iniziativa legislativa opera una invasione di campo (non mi riferisco all’intero “Jobs act” ma a quelle parti dello stesso che ritengo piu’ proprie dell’autonomia contrattuale delle parti sociali), essa è riconducibile a due condizioni o situazioni negative : per assenza di iniziativa o inerzia propositiva degli attori sociali o perché la politica strumentalizza per altri scopi e obiettivi un problema sociale.
Nel caso della questione di abrogazione o radicale modifica dell’art.18 della Legge 300/70, come giustamente spiega l’amico Enzo Mattina in un suo articolo su questa testata, ricorrono – purtroppo – ambedue queste situazioni. Lo è oggi, lo è stato con i precedenti Ministri Fornero e Sacconi.
L’articolo 18 della L.300/70 – a mio avviso – come principio di civiltà giuridica è inalienabile ma come ogni principio deve essere attuato nel concreto delle situazioni che si presentano e in questa caso la normativa applicativa è carente, alla quale in alcuni ccnl hanno posto rimedio norme contrattuali in materia di licenziamenti disciplinari oppure pragmatiche soluzioni risarcitorie condivise dalla parti sociali a livello aziendale anche a seguito di esiti di “malagiustizia” a fronte del ricorso a tale sede.
La pochezza di approfondimento da parte sia della politica che da parte degli attori sociali ha ristretto il problema al tema del “reintegro si- reintegro no con risarcimento economico”.
Dopo l’intervento operato con la c.d. “Legge Fornero”, mi sembra che la diatriba riguardi il licenziamento per giusta causa per motivi disciplinari perché, per quelli c.d. discriminatori, nessuno avanza pretese di modifica (non solo per motivi di dubbia costituzionalità ma anche perché è difficile immaginare un imprenditore cosi’ fesso da motivare il licenziamento per le tendenze politiche, sindacali, sessuali, religiose di un lavoratore). Nessuno ha chiesto revisione agli interventi operati dalla Ministro Fornero per quelli economici.
La legge 300/70, però, nel mentre è precisa nel qualificare sinteticamente i vari caratteri della discriminazione, non lo è altrettanto per i motivi di carattere disciplinare lasciando così totale libertà di interpretazione al datore di lavoro e, in caso di ricorso, alla discrezionalità del giudice.
Perché non inserire, allora, nella Legge una articolata e puntuale fattispecie di mancanze e violazioni comportamentali in base alla quale giudicare se c’è stato o meno dolo o colpa grave da parte del lavoratore e quindi una “giusta causa” alla base del provvedimento di licenziamento ?
In caso di insussistenza di queste cause, di non comprovata denuncia da parte del datore di lavoro degli addebiti, di illegittimità del provvedimento per cause non contemplate dalla casistica che propongo di inserire nella Legge, è evidente che il reintegro diviene un obbligo perché, diversamente, sarebbe come condannare o giustiziare un innocente !!
Dove sta il problema ? Sta in vari casi di “malagiustizia”. Non solo abbiamo le note e deprecabili lungaggini che investono tutta la giustizia civile e amministrativa (ci sono cause di lavoro sull’argomento che durano dai 2 ai 4 anni !!, una situazione inaccettabile sia per i lavoratori che per le aziende) ma ci sono anche sentenze fuori dal mondo operate da certi “giudici d’assalto” che sono state le vere “nemiche” del diritto al reintegro dell’art.18 e sono tutt’ora argomento a sostegno delle tesi abrogazioniste.
Non solo abbiamo i casi degli autori dei furti alle valigie a Fiumicino reintegrati sul posto di lavoro dopo la sospensione operata dall’Azienda, ma ci sono altri casi di sentenze di reintegro pur in presenza di comprovate – in maniera inequivocabile – gravi mancanze (tipo abbandono del posto di lavoro o piccoli furti di beni aziendali) con la motivazione incommentabile che……. “il danno arrecato all’impresa non era cosi’ consistente da giustificare un provvedimento grave come il licenziamento” !!!
Allora, una seconda proposta. Per ovviare alle lungaggini della giustizia e a certe esibizioni di “malagiustizia” che – tra l’altro – si ritorcono contro i diritti reali dei lavoratori, perché non introdurre nella Legge 300 per gestire tale articolo l’istituto dell’arbitrato vincolante ? Un istituto che sarebbe gestito da un Collegio “tripartito” (i rappresentanti sindacali delle due parti, una terza figura di affermata competenza e imparzialità) con il compito di accertare la veridicità e/o la legittimita’ o meno degli addebiti mossi al lavoratore oggetto del provvedimento.
In base degli esiti della pronuncia, il reintegro o la riconferma del licenziamento dovrebbe essere automatica.
Sempre al Collegio dovrebbe essere assegnato anche un compito di tentare la via conciliativa per una transazione condivisa dalle parti – alternativa al reintegro – tipo un congruo risarcimento economico e/o il percorso di ricollocazione; quest’ultimo inevitabile, quando, per esempio, le condizioni “ambientali”, a seguito della causa, rendono complicato anche umanamente il proseguimento del rapporto.
Con l’implementazione (e non l’abrogazione) dell’art.18 il principio di civiltà giuridica – con il mantenimento della clausola del reintegro in assenza della “giusta causa” – rimarebbe diritto disponibile, ma si introdurrebbero in materia – come proponeva anche Enzo Mattina – un ventaglio di ulteriori soluzioni che – nella libertà delle parti – valorizzerebbero il ruolo partecipativo e costruttivo degli attori sociali tipico di un moderno sistema di relazioni industriali, come avviene in Germania.