Il finanziamento della politica è diventato ineludibile dopo gli sperperi, i ladrocini e le strumentalizzazioni costituenti il motivo principale della disaffezione che ormai si traduce sistematicamente in un progressivo aumento dell’astensionismo, pervenuto, nelle recenti regionali a rasentare il 60 per cento degli aventi diritto ad esercitare il voto. Quando i sei decimi del corpo elettorale disertano le urne, non si può più proseguire a fare politica seriamente, perché i risultati, misurati ovviamente su un ristretto 40 per cento di votanti, suscitano l’impressione che si viva nell’illegalità e nell’approssimazione truffaldina.
Qui non si tratta di ricorrere al moralismo per esprimere le più vive inquietudini sul futuro prossimo della democrazia italiana. Il problema è che la democrazia va comunque intesa come «imperio dei numeri», mentre i numeri reali derivano soltanto da una parte minoritaria della comunità. In tal modo la democrazia si rivela un equivoco, una astrazione che si adotta e si accetta per convenienza e accidia culturale, ma non ha più senso politico. Del resto l’ultimo movimento protestatario insorto nel Paese, quello grillino della Democrazia 2.0, inizia anch’esso a pagare lo scotto di una rappresentatività sempre più ridotta e conservata con rigore autoritario al proprio interno.
Il finanziamento della politica non è un reato e men che mai un abuso in sé. È diventato inaccettabile col degrado del pensiero politico e dei comportamenti concreti delle forze politiche. Al punto che, non soltanto in sede locale, ormai nascono, vivacchiano e scompaiono spezzatini di partiti personali che non si comprende bene chi e cosa rappresentino, quale giustificazione e motivazione distintiva forniscono della loro stessa esistenza e della mescolanza dei saperi cui si richiamano come se questa costituisse il livello più avanzato di una politica diventata mestiere redditizio.
Eppure, anche in Italia, e non da oggi, esistono altri strumenti di crescita ideale e di formazione politica di cui, un tempo, i grandi partiti popolari s’avvalevano per creare nuovi quadri, affinare i propri orientamenti complessivi e settoriali, irrobustire contenutisticamente i movimenti politici perché avessero ciascuno distinguibilità originale, capacità d’attrazione e di persuasione non soltanto propagandistica. Le élite politiche non sbocciavano sotto i funghi, con delle specie anche assassine benché esteticamente fascinose. Questi strumenti speciali, non costruibili sul pensiero liquido o su qualche convegno a più voci dove le differenze di posizione neppure siano avvertibili se non addirittura sfumate e illeggibili, si chiamano fondazioni.
Un tempo le fondazioni costituivano il fiore all’occhiello dei partiti aventi idee ed esperienze di qualità alle spalle. Con partitelli connessi a spericolati finanziamenti pubblici che hanno consentito enormi sperperi e arricchimenti personali, le fondazioni (quasi nessuna esclusa) si sono trasformate in occasioni per eludere i controlli, sottrarre beni e capitali ai gruppi che li avevano ricevuti sotto altri marchi politici, in strumenti da tenere di riserva per portare l’affondo definitivo contro i gestori temporanei di partiti impegnati a rottamazioni epocali, ma anche salutari, se non condotte faziosamente.
Il Giornale ha appena dedicato più pagine documentate sul tesoro accumulato da una sinistra che non accetta l’egemonia di Renzi e ha, col tempo, trasformato le fondazioni in sinecure, in trampolini di lancio di qualche parlamentare garante delle vecchie nomenclature, patrimonizzando una quantità enorme di ricchezza fatta fruttare in maniera articolata perché non resti passiva. Si tratta di circa un centinaio di fondazioni mantenute in vita non per custodire nostalgicamente antichi vessilli ormai logori in Italia e nel mondo, né per impedire al fisco un controllo minimo delle contribuzioni ricevute nei decenni trascorsi, magari anche dall’Urss.
Il quadro indicato da Il Giornale concerne ben 70 fondazioni, un numero tutt’altro che gonfiato e, anzi, sicuramente di parecchio inferiore: basti notare l’assenza di riferimenti a Livorno e a Rosignano Marittimo (due centri rossi, anzi rossissimi) per rendersi conto che il patrimonio comunista (altra definizione sarebbe inadeguata) è ancora più consistente. E può tornare utile per prevedibili prossime battaglie «fraterne», logica conseguenza delle rotture parlamentari di un Pd divisosi in tre parti preannuncianti scissioni.
Però esistono anche fondazioni libere di tipo completamente diverso: alcune riconosciute dallo Stato per le loro antiche connessioni con partiti minori e cancellati nel 1992-1994 dal manipulitismo; altre non riconosciute perché non collegate ad alcun partito (vecchio o nuovo) e, invece, dotate di documentazione riguardante l’intero arco culturale e politico italiano a cominciare dal 1943 e che, non avendo santi protettori negli ultimi parlamenti, e non appartenendo a filiere settarie in tutte le regioni visibili e attive, neppure compaiono nelle tabelle speciali dei beni culturali, pur essendo considerate, da soprintendenze archiviste, come archivi di notevole interesse storico per l’importanza che rivestono per la vita politica, sociale civile e culturale italiana.
C’è insomma, in Italia, fondazione e fondazione: chi figlia di vecchi marpioni della politica che non c’è più; chi figlia di una cultura politica reale compiuta, non escludente alcun settore culturale del Novecento (come l’Istituto per la storia della democrazia repubblicana di Tarquinia), che però resta inspiegabilmente fuori dai circuiti di sostegno pubblico per quanto fornito di documentazione straordinaria che, per alcuni settori come l’emeroterico, è addirittura superiore alle dotazioni delle due maggiori biblioteche italiane: la Nazionale di Firenze e la Nazionale di Roma.
Le fondazioni culturali di quest’ultimo tipo, sono anche le più bisognevoli per le spese correnti. Ma l’assenza di protettori politici le obbliga a vita stentata e spesso a non potere fornire agli studiosi preziosi riferimenti sulla storia politica italiana dalla fine degli assolutismi monarchici a oggi.