Il frenetico agitazionismo di alcuni industriali e finanzieri che negli ultimi due mesi stanno facendo il giro delle sette tv per autocandidarsi alla guida del Paese proponendo una radicale rifondazione della democrazia, è quanto meno sospetto. Nel senso che ogni demagogico richiamo allo scettro ai cittadini effettuato da personalità che poi prospettano un’Italia presidenzialista e decisionista, non è la prima volta che venga evocato (anzi se ne trova traccia sin dalla fase costituente) e, se non ha incontrato una calorosa adesione di popolo, vuol dire che, oggettivamente, indipendentemente dalle qualità personali dei proponenti, non è credibile ed è anche un tantino fastidiosa.
Ma torniamo a industriali e banchieri d’oggi molto attivi sui media (anche in virtù del loro peso nelle proprietà di grandi quotidiani e di talune televisioni che cercano di popolizzare visi e concezioni come un qualsiasi prodotto commerciale). Tra i primi, in particolare, ci sono personaggi noti alle cronache per il valore competitivo delle loro produzioni addirittura nel mondo e per una sana conduzione delle relazioni fra proprietà e dipendenti che induce a parlare di una «grande famiglia» di una decina di migliaia di persone fra dirigenti e prestatori d’opera in cui regna franca armonia e unità di propositi.
Il complesso industriale Della Valle costituisce indubbiamente, per il nostro Paese, un modello invidiabile e da imitare: anche perché è nato, si è sviluppato e s’impone sul mercato mondiale per l’alto tasso di capitale di rischio proprio impiegato, e non ricorrendo a forme di assistenzialismo pubblico che sono causa non ultima della crisi che stiamo vivendo e che Mario Draghi ha appena avvertito essere ancora lontana dal concludersi..
Un modello industriale, per quanto efficiente, razionale, armonioso e unitario, è altra cosa rispetto ad una politica la cui responsabilità ricada su un uomo solo al comando per quanto aperto egli sia verso le complessità di un corpo comunitario con una molteplicità di interessi, tutti legittimi, tutti da garantire e valorizzare se produttivi e non parassitari. Né si può richiamare l’esperienza dell’industriale Silvio Berlusconi, disceso in campo e subito accolto con alto consenso popolare in ben altro contesto storico. Tuttavia, forse è proprio il caso fortunato del Cavaliere che va stimolando personalità estranee alla politica a cercare di cimentarsi in un mestiere che non è il loro, prescindendo da una visione generale, e anzitutto dal possesso di cultura politica.
Non si diventa leader politico solo per il buon esempio dato alla guida di un gruppo industriale confidando nella benevola amicizia di qualche esperto politico di lungo corso. E c’è sempre da considerare che il decisionismo, anche quando consacrato da giudizi positivi di politologi, non è consigliabile adottarlo in sede politica perché inevitabilmente risulta esposto al rischio di trasformarsi in autoritarismo, magari paternalistico, ma sicuramente non idoneo a rifondare la democrazia.
Certo le valutazioni di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera (20 novembre) sono suggestive; e l’idea di rinnovare, anzi di rifondare la democrazia non può non essere condivisa, qualunque sia la preferenza individuale del cittadino, qualunque sia la sua professione. È vero ed è bene tenerlo a mente: «I leader democratici, quando sono veri leader, servono per l’appunto a una tale opera di rifondazione». Esattamente per tale ragione, non bisogna mai dimenticare che leader non è sinonimo di capo (d’un partito o di una azienda) e ha bisogno di molte qualità per potersi imporre sulla scena nazionale. Del resto, lo stesso Galli della Loggia osserva che «riscoprire il “politico” dovrebbe poter dire per la democrazia innanzi tutto questo: riscoprire e riformulare il concetto di sovranità, e con esso la necessità creativa imposta periodicamente dalla vicenda storica».
Anche il giovane Matteo Renzi, che di politica ne mastica da ragazzino, aveva suscitato, per le sue idee di rottamazione (che si può anche intendere come rifondazione) tante «speranze (quasi) tradite». È appunto quando le speranze non si realizzano che la disillusione si sostituisce alle attese e aggiunge danno al danno. Il medesimo rischio incombe su chi, con generosa faciloneria, si autopropone come uomo del cambiamento immaginando che la propria storia personale sia sufficiente a rinfrancare i cuori d’un popolo deluso. Se ciò vale per una personalità intrepida come Diego Della Valle, l’agitazionismo di un banchiere-finanziere come Corrado Passera (cui fornisce qualche credenziale Walter Veltroni, simpatico nobile politico decaduto) palesemente stride con l’urgenza che abbiamo in Italia di trovare élite (e non manager con danaro altrui) davvero sensibili al pluralismo politico: che non significa trasformismo, e va garantito badando all’interesse generale, non al proprio.
Rifondare una democrazia non è insomma compito di dilettanti, anche se brillanti e comunicativi.