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Ecco tutti gli effetti positivi della Fed per l’economia Usa

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Di seguito il testo della nona puntata di Oikonomia, rubrica settimanale di Marco Valerio Lo Prete (giornalista del Foglio) ospitata da Radio Radicale. Ogni lunedì mattina, dopo la rassegna stampa, potrete ascoltare una nuova puntata. (Qui tutti gli audio di Oikonomia e i testi finora pubblicati).

Nell’ottobre 1999, in una cittadina dello Stato americano del Vermont chiamata Woodstock, da non confondere con quella che nel 1969 aveva ospitato la famosa “Tre giorni di pace e rock”, alcuni banchieri centrali ed economisti di alto profilo si riunirono per un convegno sul tema “Politica monetaria in uno scenario di bassa inflazione”. Ben Bernanke, allora professore a Princeton, parlò così della situazione del Giappone, già vittima di quello che poi è stato chiamato “decennio perduto” in termini di sviluppo economico: “Scelte estremamente errate nelle politiche da attuare sono state la causa primaria della Grande Depressione. E oggi in Giappone si sentono fare dichiarazioni da parte dei policymaker che ricordano paurosamente quelle degli anni Trenta.

(…) Ci sono forti ragioni per ritenere che un’espansione monetaria aggressiva possa far aumentare i prezzi e stimolare la ripresa in Giappone”, diceva Bernanke, che nel 2005 sarebbe diventato governatore della Fed, la Banca centrale americana, per restarlo fino al 2014. Aggiunse poi Bernanke: “Ma lo svantaggio dell’indipendenza della Banca centrale è che, se per qualsiasi ragione essa sembra determinata a non prendere le misure necessarie, c’è poco che resti da fare, perlomeno nel breve periodo”.

Era l’ottobre 1999. Quindici anni dopo, nell’ottobre appena concluso, la settimana scorsa i mercati mondiali hanno festeggiato l’ennesimo stimolo monetario annunciato dalla Banca centrale giapponese. L’annuncio rappresenta proprio quella “espansione monetaria aggressiva” invocata 15 anni fa da Bernanke. In sintesi, la Bank of Japan ha fatto sapere che aumenterà la base monetaria di 80 trilioni di yen all’anno (pari a circa 570 miliardi di euro), invece che dei 60-70 trilioni promessi finora. Inoltre sarà ampliato il programma di acquisti di asset sul mercato: la Banca centrale giapponese comprerà titoli di stato per 80 trilioni di yen all’anno (dagli attuali 50), triplicherà gli acquisti di azioni fino a 3 trilioni l’anno (oltre 21 miliardi di euro) e quelli di fondi immobiliari (fino a 90 miliardi l’anno). Quello messo in campo dal governatore Haruhiko Kuroda è già uno “stimolo estremo” per l’economia, come lo ha definito il Wall Street Journal. L’obiettivo di Kuroda infatti è duplice: vincere quella che lo stesso banchiere centrale definisce “mentalità deflazionistica”, cioè il circolo vizioso della caduta di prezzi, salari, spesa per consumi e investimenti, con conseguente lievitazione dei debiti; e così puntellare il tasso di crescita del pil giapponese che quest’anno è stato rivisto al ribasso, a più 0,5 per cento.

Lo stimolo messo in campo dal Giappone appartiene a un ventaglio di “politiche non convenzionali” delle Banche centrali, cui si può far ricorso dopo che i tassi di riferimento sono stati già ridotti a tal punto da non poter essere abbassati ancora. E’ quello che è accaduto in Giappone e, più recentemente, anche negli Stati Uniti, dove i tassi sono già vicini allo zero da anni: perciò entrambi i Paesi, seppur in forme diverse, si sono imbarcati in uno storico esperimento di politica monetaria chiamato Quantitative easing, o “Qe”, che in italiano possiamo tradurre come “allentamento quantitativo”.

Il Quantitative easing, di cui gli Stati Uniti hanno invece ufficializzato la fine la scorsa settimana dopo 6 anni, non equivale propriamente allo “stampare moneta”, come pure riferiscono i media per ragioni di sintesi. Si realizza piuttosto quando una Banca centrale acquista su larga scala asset finanziari in cambio di depositi (o riserve) delle stesse banche. Tra questi asset comprati dalla Banca centrale, invece che i soli titoli di Stato a breve termine solitamente utilizzati per fissare il livello del tasso di riferimento e l’offerta di moneta (operazioni di mercato aperto), nelle operazioni di Qe compaiono anche titoli di stato a lunga scadenza o asset privati di varia natura. L’obiettivo delle Banche centrali è quello di influire sull’andamento economico modificando al ribasso i tassi d’interesse su Titoli del Tesoro e altri strumenti finanziari (come i corporate bond). Quando la Fed per esempio acquista su larga scala titoli del Tesoro americano, la domanda di questi titoli aumenta e quindi salgono i loro prezzi. Se i prezzi aumentano, calano i tassi d’interesse sugli stessi titoli di Stato. Lo stesso accade per gli interessi degli asset privati acquistati dalla Banca centrale. Ora, se gli interessi scendono, il costo per Stato e privati per finanziare gli investimenti diminuisce. Con il tempo – queste almeno sono le aspettative – maggiori investimenti dovrebbero rafforzare l’attività economica, creare nuovi posti di lavoro, ridurre la disoccupazione.

Gli effetti delle politiche di Quantitative easing non sono sempre garantiti. In Giappone, come abbiamo visto, e nonostante la politica della Banca centrale sia stata espansiva per anni, si sente oggi il bisogno di ulteriori stimoli. Negli Stati Uniti invece, dopo i tre round di Qe avviati dal 2009 dall’ex governatore Bernanke, il bilancio della Fed si è sì gonfiato fino ad arrivare a 4,48 trilioni di dollari, ma contemporaneamente la ripresa si è rafforzata. Anche se dimostrare in maniera definitiva un nesso di causalità tra Qe e ripresa dell’economia è complesso, è vero certamente che, mentre oggi la Fed interrompe gli acquisti, il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è al 5,9% dal picco del 10 raggiunto a fine 2009. Non solo: il pil americano crescerà del 2,2% quest’anno e del 3,1 per cento l’anno prossimo, cioè un tasso di crescita che è tre volte quello atteso per l’area dell’euro, nella quale l’Italia si trova. Un’area euro che per varie ragioni di ordine politico e giuridico non ha ancora percorso, se non con estremi ritardo e timidezza, le strade innovative già battute dalle altre Banche centrali dei paesi sviluppati.



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