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Ecco come le Regioni possono tagliare la spesa sanitaria

Il Governo decide che le Regioni debbano tagliare, comunque, quattro miliardi dai loro bilanci. II ministro Pier Carlo Padoan afferma, con il piglio tecnico che si addice al garante dell’equilibrio economico, che nella sanità c’è tantissimo da risparmiare. La ministra Beatrice Lorenzin si dichiara d’accordo con Matteo Renzi, a condizione che venga rispettato il Patto per la salute 2014-2016.

A fronte di tutto questo i governatori regionali insorgono, ma non troppo. Si ripropone (per voce di Martini, governatore della Toscana) di istituire una partecipazione del 10% alle prestazioni godute da parte dei più abbienti, una proposta da tempo formulata in atti dell’Università della Calabria. Una ipotesi doverosa, attesa la necessità di assicurare l’assistenza gratuita agli indigenti, in incremento progressivo a causa della crisi che ingigantisce i numeri della disoccupazione, generatrice della nuova povertà, unitamente alla mole degli espulsi dal lavoro, dipendente e non.

Si prospettano tagli regionali, non necessariamente ricadenti nei Servizi sanitari regionali. Tuttavia in alcune Regioni (quelle notoriamente sprecone) non solo si dovrà intervenire sulla sanità ma lo si dovrà fare in modo consistente, attesi gli sprechi e le disarmonie organizzative presenti.

Il problema è capire se il taglio mirato sia sufficiente a conseguire il doppio risultato di decrementare sensibilmente la spesa corrente e di rientrare dal debito pregresso, che in alcune regioni (in primis, Calabria, Campania e Sicilia) raggiunge valori miliardari opportunamente coperti da mutui agevolati dallo Stato. Il tutto rendendo il più appropriata possibile l’attività prestazionale del Servizio sanitario nazionale in termini di Lea, che sarebbero peraltro da rivedere al rialzo, considerata la loro stantia previsione.

Tra una perdita di tempo e un’altra, che ha contraddistinto l’operato dei trascorsi governi (tutti), finalmente una ipotesi seria e praticabile di spending review. Peccato non essere assistita dalla individuazione dei tantissimi tagli, da rintracciare facilmente nell’organizzazione centrale che abbonda di sprechi (fatti anche di organismi inutili), e da una indispensabile riforma strutturale che intervenga sul malfunzionamento sistematico. Una riforma che vada a braccetto con l’introduzione a regime del federalismo fiscale e, quindi, con la novellata modalità di finanziamento dei costi/fabbisogni standard da determinare dopo tanti anni di doloso ritardo degli addetti ai lavori ministeriali e della politica antifederalista.

In relazione alle cose da fare necessita pertanto che il livello statale si faccia carico di una riforma strutturale che stravolga l’attuale sistema.

Di contro, le Regioni del sud (fatta eccezione per la Basilicata) e quelle eternamente “inguaiate” del centro-Italia (Lazio e Abruzzo), con l’aggiunta di qualcuno del nord (Piemonte e non solo) avranno tanto da fare. Per alcune anche in termini di legislazione di dettaglio. Prioritariamente, dovranno rivedere il proprio sistema erogativo e realizzare le correzioni delle anomalie ivi consolidate, che “sporcano” i bilanci con spese inutili e clientelari nonché impegnarsi per realizzare quella riforma culturale che renda i cittadini autenticamente utenti (e non già clienti della politica) e altrettanto pretendenti di un diritto costituzionale. Il tutto spesso (Campania, Calabria, Abruzzo, Molise e Lazio) in convivenza forzata con il commissario ad acta tenuto a portare a termine i piani di rientro in atto. Quello strumento che è stato ulteriormente distruttivo per l’efficienza di alcuni servizi sanitari regionali (Calabria), essendosi ivi limitato a contrarre mutui a copertura del debito pregresso e ad attenuare il deficit, esclusivamente attraverso quel blocco del turnover che ha determinato l’emergenza delle emergenze (con la decimazione ad imbuto delle attività dei pronto soccorso), ridotte all’osso, e un conseguente risparmio di spesa corrente per centinaia di milioni, addirittura superiore al risanamento vantato. Un risultato naturale dunque, conseguito nonostante le “disattenzioni” nella retribuzione plurimilionaria degli extrabudget in favore di alcuni accreditati privati, che hanno caratterizzato, per esempio, la “qualità” della gestione commissariale della sanità calabrese.

Ci sarà quindi un bel da fare per i governatori nel collaborare all’ottimizzazione dei loro conti garante dei pretesi risparmi. Per le Regioni commissariate, dovranno anche gestire l’exit strategy dal commissariamento.

Nelle Regioni c’è comunque tanto grasso da sciogliere, inteso come eccesso di costi, tra: retribuzioni non propriamente corrette e consulenze professionali a iosa; regimi di prorogatio ultra-decennali nei contratti pubblici di fornitura di servizi (cfr. per esempio, l’effettuazione dei lavori di pulizia e affini nell’Ao cosentina); cooperative che interpretano il novello caporalato gestendo liberamente centinaia di postazioni lavorative (non si sa fino a che punto utili) in barba ad ogni criterio meritocratico; le unità operative, complesse e semplici (i vecchi “primariati”), che aumentano a dismisura per soddisfare i bisogni della politica.

Ci sarà tanto da fare, meglio di come si è fatto nel Mezzogiorno, in termini di garanzia dei servizi che non ci sono, tanto da favorire nel sud una sensibile diminuzione della mobilità passiva che muove valori quasi miliardari, a tutto vantaggio delle Regioni ricche e a discapito di quelle povere. Necessiterà soprattutto intervenire, dappertutto, con una sana programmazione, che non c’è mai stata, atteso che la si è sempre costruita prescindendo dal reale fabbisogno epidemiologico, ovunque mai rilevato.

Come fare tutto questo? Ritenendo non impossibile ottimizzare la spesa, depurandola di ogni “tossina”, e migliorando il livello prestazionale dell’assistenza. Una contraddizione? Non affatto. Basta saperci fare (Yoram Gutgeld, docet).



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