Di seguito il testo della settima puntata di Oikonomia, rubrica settimanale di Marco Valerio Lo Prete (giornalista del Foglio) ospitata da Radio Radicale. Ogni lunedì mattina, dopo la rassegna stampa, potrete ascoltare una nuova puntata. (Qui tutti gli audio di Oikonomia e i testi finora pubblicati).
Dopo le precisazioni del Governo Renzi sulla Legge di stabilità per il 2015, mercoledì prossimo la Commissione dell’Unione europea renderà nota una sua prima valutazione. La stessa Commissione che ha messo in luce una “significativa deviazione” dell’Italia dal Patto di stabilità e crescita. Il governo infatti ha rinviato il pareggio di bilancio strutturale al 2017 e non rispetterà il ritmo previsto per il rientro del debito pubblico, preferendo anzi far salire il deficit per il 2015 di 0,7 punti percentuali di pil. E’ plausibile che si arriverà a un compromesso e che l’esecutivo italiano dovrà nel peggiore dei casi varare una minima stretta sui conti pubblici, pari a circa 0,3 punti percentuali di pil.
A leggere la stampa italiana ed europea, dunque, stiamo attraversando una fase di schermaglie diplomatiche importanti tra Roma e Bruxelles, così come tra Bruxelles e altre capitali europee. Tuttavia indossare un paio di lenti “americane” potrebbe essere utile. Un po’ come fece due secoli fa Alexis De Tocqueville. L’aristocratico francese nel 1831 fece un viaggio negli Stati Uniti per studiarne il sistema penitenziario. Poi però il suo saggio “La democrazia in America” divenne un trattato di storia, sociologia ed economia sul Nuovo mondo, oltre che un confronto con l’Europa dove la democrazia attecchiva più lentamente. Scriveva infatti Tocqueville: “Questo libro non si pone decisamente al séguito di nessuno: scrivendolo non ho inteso né servire né combattere alcun partito, ma mi sono sforzato soltanto di vedere non già diversamente, ma più lontano dei partiti. E mentre essi si occupano del domani, io ho cercato di pensare all’avvenire”. Anche oggi, per pensare all’avvenire e non solo al domani, un punto d’osservazione americano è utile. Vista dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, la crisi dell’Eurozona è tutto fuorché una questione di punti decimali di pil, come potrebbe apparire invece dal confronto tra Roma e Bruxelles.
Per dimostrarlo, si prenda il rapporto semestrale che il Tesoro degli Stati Uniti compila per il Congresso e che ha come oggetto le politiche economiche internazionali. Nell’ultima edizione di questo rapporto, pubblicata qualche giorno fa, si nota per esempio che “la ripresa dell’Eurozona è sostanzialmente rimasta indietro rispetto a quella degli altri Paesi sviluppati. Il pil dell’Eurozona è ancora 2,4 punti percentuali sotto il suo picco raggiunto nel primo trimestre del 2008; la domanda privata è di 5 punti percentuali al di sotto dei livelli pre crisi; il tasso di disoccupazione rimane molto elevato all’11,5 per cento”. Alla luce della crescita “sostanzialmente piatta” nella prima parte del 2014, “rimangono ad oggi robusti venti contrari di tipo macroeconomico e finanziario”.
Washington scrive poi che “nonostante sia rallentata l’andatura del consolidamento fiscale, la stance di politica fiscale dell’Eurozona rimane recessiva; e il processo di disindebitamento delle banche, assieme alla bassa crescita dei salari reali e alla debolezza degli investimenti continuano a pesare sull’attività economica”. Inoltre “la crescita rimane fortemente dipendente dalla domanda estera. La domanda interna si è espansa soltanto in due degli ultimi 12 trimestri, mentre le esportazioni nette sono cresciute in 9 degli ultimi 12 trimestri”.
Se la situazione attuale è grave, nemmeno le prospettive dell’Eurozona, a politica monetaria invariata, sono rosee: “Con l’inflazione ancora molto al di sotto dell’obiettivo statutario dalla Banca centrale europea, e con i crescenti rischi geopolitici che diventano un pericolo per la domanda globale, l’Europa fronteggia il rischio di un periodo prolungato di inflazione al di sotto del livello-obiettivo o addirittura di autentica deflazione. Ciò rallenterebbe il ritorno dell’Europa alla crescita, impedendo ancora il processo di ribilanciamento interno che rimane necessario tra il cuore dell’Eurozona e la sua periferia, accrescendo inoltre il fardello reale dei debiti pubblici e privati”.
Infine c’è un’altra peculiarità di questo rapporto dell’Amministrazione statunitense sui principali rischi dell’economia globale. L’edizione pubblicata a ottobre è infatti quella che contiene il maggior numero di riferimenti espliciti a un solo paese dell’Eurozona, cioè la Germania. Berlino è citata addirittura 16 volte in 36 pagine. Gli analisti statunitensi enfatizzano per esempio il fatto che “in Germania la crescita della domanda domestica è stata continuamente debole, e il suo avanzo delle partite correnti (cioè l’eccedenza delle esportazioni di beni e servizi sulle importazioni) rimane superiore al 7 per cento del pil”. Nello stesso rapporto si fa notare come perfino la Cina, che pure non è considerata come l’alunno modello e più disciplinato nell’arena internazionale, abbia ridotto negli anni – secondo le indicazioni del G20 e non solo – il suo avanzo delle partite correnti: dal 10,1 per cento del pil nel 2007 a meno del 2 per cento oggi. Secondo gli Stati Uniti, l’atteggiamento di Berlino fa sì che “l’aggiustamento e la compressione della domanda nella periferia dell’Eurozona non sono stati accompagnati da politiche più accomodanti nel cuore dell’Eurozona”. Al punto che il Tesoro statunitense auspica, per la prima volta esplicitamente, che i richiami di Bruxelles verso la Germania ottengano “risposte” e producano “politiche mirate a riequilibrare in maniera simmetrica la posizione fiscale dell’Eurozona”. Insomma, visto dagli Stati Uniti, il dibattito in corso in Europa non appare confinato ai decimali di deficit fiscale in più e in meno, e sul banco degli imputati non siedono soltanto i soliti sospetti.