Pubblichiamo grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, l’articolo di Tino Oldani uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.
Le privatizzazioni stanno diventando una delle pagine più deludenti del governo di Matteo Renzi. Il meno che si possa dire è che, su questo fronte, regna la massima confusione. All’inizio di settembre il premier smentì l’intenzione di mettere in vendita quote di Eni ed Enel (ipotesi attribuita al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan), ma ribadì che «le privatizzazioni si faranno e i target previsti saranno rispettati». Dunque, un impegno solenne a cedere al mercato alcune proprietà dello Stato per 10-11 miliardi di euro l’anno, sia in questo che nei prossimi due anni. Tra gli asset cedibili, in alternativa alle quote di Eni ed Enel, spuntarono i nomi di Enav, Ferrovie e Poste. Ma da allora, per rendere operanti queste privatizzazioni, non si è fatto nulla.
Prendiamo il caso Enav. Fino a pochi mesi fa questa società, che gestisce il controllo del traffico aereo, era un gioiello. Conti a posto (800 milioni di fatturato, 50 milioni di utile, di cui 31 girati al Tesoro) e dotazioni tecnologiche d’avanguardia avevano consentito all’amministratore delegato, Massimo Garbini, di espandere le attività anche all’estero, vincendo gare importanti. Appena il Tesoro ha annunciato l’intenzione di mettere in vendita il 49% del capitale sociale, gli investitori italiani e stranieri si sono immediatamente fatti avanti. Valutata dagli analisti due miliardi, la società Enav poteva garantire allo Stato un introito sicuro e rapido di almeno un miliardo. Invece non se n’è fatto ancora nulla.
Per mesi, a partire da maggio, l’assemblea che doveva rinnovare il consiglio d’amministrazione (su indicazione del Tesoro, azionista unico), è andata deserta. Il motivo? Mistero. In settembre, per evitare che l’Enav finisse in mano a un commissario, il Tesoro ha nominato un Cda dimezzato di tre consiglieri, mentre l’ad Garbini, non confermato, ha fatto fagotto e lasciato l’azienda senza guida.
Di conseguenza, sembra inevitabile che la privatizzazione scivoli al 2015. Ma poiché il governo ha un bisogno disperato di soldi per fare quadrare la Legge di stabilità, il Tesoro ha ordinato all’Enav (che ha i conti a posti, con un patrimonio di 1,2 miliardi e appena 80 milioni di debiti) di abbattere il capitale di 300 milioni e di girare l’importo all’erario come cedola extra. Un’operazione legittimata, all’inizio, da un codicillo inserito nel decreto Sblocca Italia, ma bocciato dal Parlamento. Che fare? Una lettera del Tesoro di pochi giorni fa ha imposto all’Enav di scucire ugualmente il cedolone. Poi si vedrà come metterci una pezza giuridica. Insomma, una figuraccia. E privatizzazione ferma al palo.
Quanto alle Ferrovie (70 mila dipendenti, una quarantina di controllate, 8 miliardi di trasferimenti annui da parte dello Stato, che salgono a 12 miliardi con il fondo pensioni), parlare di privatizzazione sembra a dir poco umoristico. Il governo ha appena rinnovato i vertici: un dirigente interno, Michele Elia, è l’ amministratore delegato, mentre l’economista della Luiss, Marcello Messori, è presidente. In poco tempo, i due hanno constatato di non essere d’accordo su nulla, e Messori ha rimesso le deleghe in materia di privatizzazione e di riassetto strategico del gruppo.
Il caso ha suscitato scalpore, e ben quattro studiosi di trasporti (Andrea Boitani, Marco Ponti, Francesco Ramella e Marco Spinedi) vi hanno dedicato un’analisi sul sito lavoce.info, mettendo a confronto le tesi contrapposte di Elia e di Messori in fatto di privatizzazione. Il primo punta a cedere al mercato una quota azionaria del gruppo Ferrovie dello Stato, operazione abbastanza semplice, con un incasso immediato di denaro per il Tesoro. La strategia di Messori sarebbe invece di «sfogliare il carciofo», lasciando la rete ferroviaria i mano pubblica, gestita sempre da Rfi, ma privatizzando in maggiore misura alcune attività ritenute contendibili, come il trasporto merci e l’alta velocità, dove l’esposizione al mercato è già in funzione da alcuni anni.
I quattro studiosi del sito bocconiano si dicono convinti che la prima non sia la soluzione migliore, poiché avrebbe due conseguenze negative. L’acquirente privato farebbe inevitabilmente pressioni sul socio pubblico per mantenere i «diritti acquisititi» e lo status quo, come è avvenuto per le autostrade: uno sconcio, se si pensa che tra i «diritti acquisiti» vi sarebbero anche i trasferimenti a carico dello Stato, sia pure ridotti. Di conseguenza, la concorrenza nel settore ne sarebbe fortemente ostacolata, a danno degli utenti. Meglio «la strategia del carciofo», dicono i quattro economisti, certamente più impegnativa sul piano manageriale, ma l’unica in grado di «consentire, senza traumi di sorta, la separazione della rete nazionale dai servizi, con la fine del conseguente conflitto d’interessi: infatti la rete maggiore sarebbe utilizzata da imprese non facenti parte della holding a cui appartiene il gestore della rete stessa, come invece avviene oggi».
Come andrà a finire, nessuno è in grado di dirlo. Di sicuro, dalla privatizzazione delle ferrovie il governo Renzi non otterrà neppure un euro quest’anno. Con tanti saluti al target di 10 miliardi.