Nel 2013, in Italia, il valore complessivo della spesa per investimenti è sceso al di sotto dei 290 miliardi di euro. Nel confronto con il 2007 il calo si avvicina ai 60 miliardi. All’interno del dato complessivo, si è assistito ad una forte contrazione degli investimenti pubblici. Da un valore di 47 miliardi nel 2007 si era saliti a 54 miliardi nel 2009; nel 2013, siamo scesi a 38 miliardi. Una flessione del 30% rispetto al livello massimo precedentemente raggiunto, che si confronta con il -17% del dato complessivo. Il calo appare ancora più evidente scorporando la dinamica dell’inflazione: in quattro anni, le Amministrazioni pubbliche italiane hanno ridotto di
oltre un terzo la quantità dei propri investimenti.
Diversa la situazione nelle altre due principali economie europee. In Germania, il valore degli investimenti totali, dopo essere sceso nel primo anno della crisi di quasi 50 miliardi di euro (da 518 a 470 miliardi), ha interamente recuperato quanto perso, salendo oltre i 550 miliardi nel 2013. La componente pubblica è cresciuta da 48 miliardi nel 2007 a 63 miliardi. Al netto della variazione dei prezzi, in sei anni, le Amministrazioni pubbliche tedesche hanno aumentato la quantità dei propri investimenti di oltre un quinto, a fronte di una sostanziale stagnazione del totale economia. Andamento simile in Francia: gli investimenti complessivi si sono ridotti di oltre il 5% in termini reali nel confronto tra il 2013 e il 2007, mentre quelli pubblici sono cresciuti di quasi il 2%.
IL RUOLO DEGLI INVESTIMENTI NELLA CORREZIONE DEI CONTI PUBBLICI IN ITALIA
La correzione dei conti pubblici realizzata in Italia nel corso degli ultimi anni è pari a circa il 3% del Pil. Il saldo primario, dato dalla differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito, è passato da un deficit prossimo all’1% ad un surplus del 2%.
Oltre due terzi della correzione è il risultato di un aumento del peso delle entrate, mentre la restante parte è il frutto di una più attenta evoluzione delle uscite.
Il contenimento delle spese è stato, però, interamente realizzato agendo su quelle in conto capitale. Dal 2009 al 2013, le spese delle Amministrazioni pubbliche italiane sono passate da 816 a 827 miliardi di euro. Un aumento ha interessato sia gli interessi sul debito (da 69 a 78 miliardi) sia il resto delle spese correnti (da 665 a 691 miliardi). Le uscite in conto capitale sono state, invece, oggetto di un significativo taglio, passando da 82 a 58 miliardi di euro. La spesa per investimenti è stata ridotta di 16 miliardi, crollando a 38 miliardi, il valore più basso dal 2003. Il taglio ha interessato in misura simile sia le Amministrazioni centrali sia quelle locali. Anche i contributi agli investimenti sono stati oggetto di una brusca riduzione, scendendo da 27 a 19 miliardi.
Questi andamenti appaiono ancora più evidenti se analizzati al netto della variazione dei prezzi. Tra il 2009 e il 2013, il totale delle uscite delle Amministrazioni pubbliche si è ridotto di poco più del 3% in termini reali. Le uscite correnti al netto degli interessi sul debito sono scese di poco meno dell’1%, mentre la quantità degli investimenti, realizzati direttamente dalle Amministrazioni pubbliche o tramite la concessione di contributi a soggetti privati, si è ridotta di un terzo.
Un taglio degli investimenti pubblici di tali dimensioni non trova riscontro nelle scelte delle altre principali economie europee. Nel 2009, gli investimenti assorbivano quasi il 7% della spesa delle Amministrazioni pubbliche italiane. Nel 2013, siamo scesi a meno del 5%. La Germania, che da sempre ha avuto un peso degli investimenti inferiore a quello italiano, ha leggermente aumentato la parte del bilancio pubblico destinata a questa voce di spesa, passando dal 4,8% al 5% del totale. In Francia, si è, invece, assistito solo ad un leggero ridimensionamento, rimanendo, comunque, su valori superiori al 7%.
In Italia, la riduzione degli investimenti pubblici ha interessato tutte le principali tipologie di beni. Oltre alla spesa per i fabbricati, che negli ultimi quattro anni ha sperimentato una flessione del valore superiore al 30%, particolare importanza assume il brusco taglio apportato a quella per le opere stradali e per tutte le restanti tipologie di intervento del genio civile, che comprendono gli investimenti nei porti o nella rete ferroviaria. In quattro anni, i fondi pubblici destinati a questi interventi sono stati tagliati di quasi 4 miliardi di euro. Al netto della variazione dei prezzi, si tratta di una flessione superiore al 30%. Nel 2013, gli investimenti pubblici effettuati per realizzare o ammodernare strade, autostrade, ferrovie, porti e aeroporti sono scesi su livelli molto più bassi di quelli che caratterizzavano l’inizio degli anni Duemila.
POCHI INVESTIMENTI, POCHE INFRASTRUTTURE PER LA CRESCITA
Il taglio degli investimenti pubblici ha risvolti pratici molto importanti. Come visto la riduzione della spesa ha colpito con particolare severità la realizzazione e l’ammoderdamento delle infrastrutture. Una rapida lettura di alcuni numeri aiuta a capire l’effetto che una gestione dei conti pubblici che guarda più al breve periodo può avere per l’intero sistema economico.
Partendo dalle ferrovie, la rete attualmente in uso in Italia supera i 17mila chilometri di lunghezza. Con 5,7 chilometri di linea ogni 100 chilometri quadrati di superficie l’Italia si colloca in una posizione intermedia tra i 28 paesi dell’Unione europea. Su valori inferiori troviamo sia la Francia (5,5) sia la Spagna (3,2), mentre in Germania si sale a 9,4. Se in termini di dimensione della rete la situazione italiana appare in linea con la media, combinando la quantità dell’infrastruttura con la qualità e l’efficienza delle prestazioni, oltre che con l’adeguatezza del servizio in relazione alle esigenze dei tempi, emerge un evidente ritardo del nostro Paese. Su 17mila chilometri di linea complessiva solo poco più di 900 sono quelli ad alta velocità, il 5,4% del totale. In Francia e Spagna si superano i 2mila chilometri, con un’incidenza dell’alta velocità sul totale pari rispettivamente al 6,7% e al 13,5%. Solo la Germania presenta valori più
bassi di quelli italiani, che si combinano, però, con una rete ferroviaria complessiva molto più articolata e diffusa.
Passando dal comparto ferroviario a quello stradale, la situazione non cambia: l’Italia presenta un evidente ritardo, risultato di un’estensione dell’infrastruttura non adeguata al numero di mezzi di trasporto in circolazione. In Italia, la rete autostradale si avvicina ai 6,7mila chilometri: 2,2 chilometri per ogni 100 chilometri quadrati di superficie, un valore sostanzialmente uguale a quello della Francia, ma più basso sia di quello spagnolo (2,9) sia di quello tedesco (3,6). La criticità italiana emerge confrontando l’infrastruttura disponibile con il numero di mezzi di trasporto che potenzialmente ne possono usufrire. Nel nostro Paese, circolano oltre 37 milioni di autovetture e più di 4mila tra camion e autobus. In poco più del 9% della dotazione autostradale dell’Unione europea viaggia circa il 15% del totale delle autovetture. In Italia, per ogni chilometro di autostrada abbiamo 6,2mila mezzi di trasporto potenzialmente in circolazione, in Germania si scende a 3,5mila, in Francia a 3,3 e in Spagna addirittura sotto i 2mila. Andando ad aggiungere alla rete autostradale le strade nazionali e quelle regionali o secondarie la situazione non cambia. In Italia, circolano 230 mezzi di trasporto per chilometro di strada, a fronte dei 198 della Germania, 166 della Spagna e 95 della Francia.
Concludendo con il comparto tecnologico, il ritardo infrastrutturale del nostro Paese rimane evidente. In Italia meno del 3% delle connessioni a banda larga beneficia della fibra ottica. Una percentuale simile a quella della Francia, pari a meno della metà di quella spagnola e molto distante da quella degli Stati Uniti (8%) e da quella del Regno Unito (10%). Anche la qualità del servizio risulta non soddisfacente. La velocità media nello scarico dei dati è di poco superiore ai 30 Mbit al secondo in Italia, mentre in Spagna si superano i 40 e in Francia i 50.