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I dolori del giovane Draghi

E così finalmente capisco, terminando la lettura del lungo intervento di Mario Draghi al Frankfurt European Banking Congress del 21 novembre, quale sia la ragione del tormento della Banca centrale europea in questo turbinante autunno: l’adolescenza.

La Bce, e con lei il suo “giovane” presidente, è entrata ormai nel suo sedicesimo anno. Età terribile, lo ricorderete. Quel tempo in cui lo Sturm un Drang della giovinezza cozza con la freddezza matura del calcolo adulto, che inizia a germinare nel cuore immaturo, generando lacerazioni e conflitti, delusioni e impeti suicidi. E poiché conosciamo tutti I dolori del giovane Werther di Goethe, sapete già a cosa mi riferisco.

Rileggo perciò l’intervento con questa postilla mentale e tutto mi si semplifica. Il dolori del giovane Draghi son quelli di un organismo ancora infante che si vuole adulto, costretto a fare i conti con un contesto in cui più maturi e attempati interlocutori, e segnatamente la Fed e la BoJ, dispongono di sé stessi con un’autorità e una sicumera che la Bce non ha, per ragioni di trattati, né può avere, dovendo persino confrontarsi con un contesto – l’eurozona – che sembra fatto apposta per incoraggiare la fuga romantica verso il sogno, piuttosto che verso l’azione pragmatica del ruvido adulto.

Ma sarebbe ingeneroso ridurre tutto alla pubertà, e non notare l’impeto e l’impegno, anche questi assai romantici, con i quali Draghi assicura seguirà le orme dei suoi interlocutori più maturi. Il giovane Draghi, a differenza del giovane Werther, vuol diventare grande somigliando sempre più ai grandi. Quindi vuol crescere. Ciò non vuol dire che ci riesca.

Il fatto poi che l’ingresso nell’età adulta, che nel caso della Bce implica fare un largo uso del proprio bilancio per replicare quanto hanno fatto la Fed, la BoE e la BoJ, non garantisca alcun risultato certo, come abbiamo visto osservando il caso americano e quello giapponese, è, se volete, l’aspetto tragico di questa vicenda. La giovane Bce indosserà l’abito degli adulti, ma solo per scoprire che il mondo, ossia l’economia sostanziale, se ne cura poco.

Appartiene, tra l’altro, ai dolori del giovane Draghi, questa consapevolezza. E me ne accorgo quando ripete, ormai inesausto, che la politica monetaria, pure se somigliasse sempre più a quella della Fed, poco potrebbe nel difficile contrasto contro le pigrizie deflazionarie del nostro tempo, se i governi non saranno capaci di creare ambienti favorevoli agli investimenti, visto che gran parte della tendenza deflazionaria arriva dal lato della domanda.

E mi raffiguro, mentre lo dice, il suo tormento a declinare il plurale – i governi – invidiando ai suoi consimili il notevole privilegio, a lui non concesso, di doversela vedere con un governo solo. Che già difficile.

Ma questo è solo il primo dei molti dolori del giovane Draghi.

Quello più amaro che confessa con maschia determinazione è l’inflazione. I maledetti prezzi che declinano, tenendosi ben lontani dal target del 2%, o poco giù di lì, che poi è l’unico compito a casa che i governi europei hanno messo per iscritto alla Bce. E mi figuro il giovane Draghi, stretto in un angolo, mentre i governi, con una voce sola anche se poliglotta gli dicono: una cosa ti ho detto di fare e neanche ci riesci, evocando paterni rimproveri che tutti noi, intorno ai sedici anni, abbiamo patito.

“La situazione dell’inflazione nell’euro area è diventata particolarmente sfidante”, risponde il giovane Draghi, non certo per giustificarsi quanto per spiegare.

Ma cosa volete gliene importi a uno qualunque dei governi europei, indebitati come sono, se i prezzi dei beni energetici sono crollati e la domanda è pigra, quando il rendimento implicito delle obbligazioni pubbliche è diventato più caro di tre anni fa? E cosa volete che gliene importi se gli spread sono calati, come Draghi ricorda, se poi i tassi reali sono più alti di prima?

L’inflazione inoltre, ricorda Draghi, proprio perché influenza i tassi reali, ha un impatto sugli investimenti, per i quali usualmente ci si indebita. Quindi non solo aumenta il peso dei debiti esistenti, per governi, imprese e cittadini, ma il timore che aumentino i tassi reali, in un contesto di prezzi declinanti, scoraggia pure gli investimenti. Sarà per questo che dice di vedere assai improbabile una allegra ripresa nel futuro prossimo.

Per uscire dall’angolo di questa accusa devastante, che mette in dubbio il senso stesso del suo stare al mondo – quanto sarebbe credibile la Bce se non riuscisse a rispettare il suo target di inflazione? – il giovane Draghi non può che alzare la voce. “Faremo tutto ciò che è necessario per rispettare il target di inflazione”, dice, replicando il whatever it takes che l’ha reso celebre, ai tempi della crisi dell’euro, fra i commentatori economici, sperando probabilmente di ottenere lo stesso effetto.

E fare tutto ciò che sarà necessario ha significato innanzitutto tenere i tassi a zero, se non negativi.

Che scorno però: portati a zero i tassi, osserva sconsolato, l’inflazione è rimasta bassa. E quindi via, con altre misure “senza precedenti, ma lontane dall’essere non ortodosse”. Il richiamo all’ortodossia l’ho trovato particolarmente commovente.

Il primo di questi atti “senza precedenti” è stato elaborare una forward guidance secondo la quale i tassi rimarranno bassi a lungo, con ciò volendosi orientare al ribasso le aspettative della curva dei tassi anche per le scadenze più lontane. E poi, ovviamente, c’è l’acquisto di asset che un anno fa, parlando ad Amsterdam, il giovane Draghi aveva già annunciato.

“Cambieremo la dimensione e la composizione del nostro bilancio”, dice oggi, puntando come riferimento il livello di fine 2012, quando il bilancio era circa il 10-20% più capiente di quanto non sia adesso. E mentre lo dice immagino tema qualcuno gli chieda, come mi chiedo io, perché mai da allora la Bce ha sterilizzato il denaro anziché farlo fertilizzare nella società e oggi dice di voler tornare indietro di due anni? Non somiglia questo esitare alla strategia di un perditempo?

Ma ricordo che è tipico dell’adolescenza il procedere ondivago, rabbioso e incerto insieme. L’esser timidi e rodomonti.

Soprattutto è tipico dell’adolescenza nutrire grandi aspettative. “Ci aspettiamo che gli acquisti di asset impattino sull’inflazione e il prodotto”, spiega Draghi. Ma l’unica cosa che a me viene in mente, mentre lo leggo, è la battuta di Richard W.Fisher, presidente della Fed di Dallas, che a proposito del terzo round del Quantitative easing americano disse: “C’è stato un positivo effetto ricchezza – dice – nel senso che i ricchi hanno subito un effetto positivo“. E mi riesce difficile credere che Draghi non l’abbia letta.

In ogni caso, l’aspetto più importante è quello psicologico: il signalling effect, come lo chiama Draghi. Ossia il segnale che “noi useremo tutti i mezzi a nostra disposizione, nei limiti del mandato, per riportare l’inflazione verso il suo obiettivo”.

Siamo nel difficile campo della psicologia, perciò, che poi è l’ingrediente magico che le banche centrali, come apprendiste della magia, credono di poter manipolare a loro piacimento semplicemente alzando un sopracciglio.

Draghi prende proprio l’esempio dei suoi fratelli maggiori, la Fed e la BoJ, dove i grandi acquisti di asset hanno ancorato al rialzo, dice, le aspettative di inflazione provocando la spinta del prodotto e dell’inflazione, malgrado i tassi di interesse siano rimasti bassi, generando persino una notevole svalutazione che male non fa di questi tempi. Ma questo è solo un modo di raccontare la storia.

Il secondo dolore, che in qualche modo contiene il primo, è la stolidità dei governi che rimproverano lui per l’inflazione bassa ma trascurano di mettere ordine in casa propria.

Draghi giudica con la durezza dell’adolescente che non ne conosce le difficoltà il mondo inefficiente degli adulti, ossia i vecchi stati nazionali impregnati di debiti che rappresentano promesse impossibili da mantenere. E tuttavia tanto è forte il suo tormento presente, che invita l’euro area a fare una politica fiscale espansiva, pur nei vincoli pattuiti, capace vale a dire di far da contraltare a quella della Bce.

Il terzo dolore, questo sì nascosto, deriva dal timore che tutto ciò non basti.

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