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Come il Terzo settore può diventare la “Terza via”

La crisi in corso da tempo e il conseguente aggravarsi del deficit delle finanze statali mette sempre più a rischio le attività di assistenza e sostegno alla collettività. Si impone, pertanto, l’individuazione di modalità alternative alle tradizionali politiche di spesa mediante le quali far fronte alla crescente necessità di risorse da destinare ai fabbisogni sociali. Ne parliamo con Maria Cristina Antonucci, ricercatrice presso il CNR, docente in materie sociologiche e politologiche presso Roma Tre, autrice di libri (Rappresentanza degli interessi oggi – Il lobbying nelle istituzioni politiche europee e italiane; Lobbying e Terzo Settore. Un binomio possibile), nonché di articoli su temi inerenti al sociale.

PATERNARIATO PUBBLICO-PRIVATO

Una “Terza via”, rappresentata dal partenariato pubblico-privato, potrebbe essere una delle soluzioni per fronteggiare la carenza di fondi pubblici da destinare al settore del welfare. Il premier Renzi ha in varie occasioni ribadito che non devono esservi preclusioni circa il ricorso ai privati per sostenere l’ambito del sociale. Eppure le iniziative di tipo legislativo intraprese al riguardo sembrano muovere dall’assunto che questi ultimi possano operare nell’ambito del welfare in quanto mossi esclusivamente da intenti filantropici e non, invece, in vista di una remunerazione del proprio investimento. Cosa ne pensa al riguardo?

E’ una questione davvero complessa. Va innanzi tutto rilevato come nell’intervento del disegno di legge delega del governo per il terzo settore, l’unico riferimento al termine “welfare” sia riportato nella Analisi tecnico normativa, proprio per sottolineare “l’obiettivo del Governo di costruire un nuovo Welfare partecipativo fondato su una governance sociale allargata alla partecipazione dei singoli, dei corpi intermedi e del Terzo settore al processo decisionale e attuativo delle politiche sociali”. Porre un obiettivo generale di questo tipo è aprire una linea di intervento di carattere molto innovativo, considerata la sostanziale, residua pubblicità del sistema di welfare locale, anche dopo la legge 328/2000, che ha aperto ai soggetti di terzo settore –soprattutto alle cooperative sociali – la possibilità di partecipare alla erogazione dei servizi sociali. Infatti, le (disattese) previsioni della legge 328/2000 sul coinvolgimento dei soggetti di terzo settore nella progettazione sociale, e la (non conseguita) possibilità di esercitare in modo remunerativo il lavoro professionale nel sociale si sono scontrate con la scarsità di cultura manageriale degli Enti Locali nella gestione di tale tipologia di servizi, e con i vincoli di bilancio, legati al patto di stabilità dei Comuni. Inoltre una certa propensione degli operatori del sociale a svolgere la propria attività in vista di obiettivi sociali, anziché imprenditoriali, ha teso a completare il quadro in cui le imprese e le cooperative sociali si sono trovate collocate. Tuttavia, nel disegno di legge delega 2617 sembra di intravedere qualche segnale di inversione di tendenza: all’articolo 4 del DDL, si parla di interventi in materia di impresa sociale, sottolineando come sia necessario ampliare i settori di attività di utilità sociale, prevedere, entro certi limiti e criteri, forme di remunerazione del capitale sociale di impresa e stabilire un nuovo regime di compatibilità con lo svolgimento di attività commerciali diverse da quelle di utilità sociale. Occorre valutare con attenzione il non breve percorso del decreto delegato in materia di impresa sociale per comprendere in quale misura e direzione l’esecutivo intenda liberare la possibilità di rendere più remunerativa l’imprenditoria sociale.

IL PROBLEMA DONAZIONI

Pur volendo considerare il movente filantropico come l’unico rilevante nel reperimento dei fondi per il welfare, l’approccio normativo al problema da parte del Governo appare quanto meno contraddittorio: si intendono agevolare fiscalmente le donazioni al settore, mentre si tassano in maniera più gravosa soggetti molto attivi nel no-profit, vale a dire le fondazioni bancarie. L’impressione è che, come spesso accade, manchi una visione d’insieme e, al contempo, l’intento di un intervento programmatico e strutturato. Condivide queste osservazioni?

L’intervento di tassazione sugli utili delle fondazioni bancarie inserito in legge di stabilità 2015 mi è sembrato sin dal primo momento poco coerente con le finalità di erogazione poste in essere dal sistema delle fondazioni nei confronti delle attività di volontariato. Tale sistema che prevede un canale di finanziamento tra sistema delle fondazioni bancarie e volontariato è stato stabilito dal legislatore con l’articolo 15 della Legge 266 del 1991 ed oggetto di una rinegoziazione, in forma davvero sussidiaria, dopo un lungo contenzioso, con il  Protocollo d’intesa fra volontariato e fondazioni, firmato nell’ottobre 2005 dall’Associazione di Fondazioni e di Casse di risparmio da una parte e dall’altra  il Forum Nazionale del Terzo Settore, la Conferenza permanente Presidenti Associazioni e Federazioni nazionali di Volontariato, la Rete CSVNet, che raggruppa i centri servizio per il volontariato e la Consulta Nazionale dei Comitati di Gestione dei Fondi speciali per il Volontariato. La mia impressione è che non si sia tenuto adeguatamente in considerazione questo aspetto di finanziamento del volontariato tramite il canale delle fondazioni bancarie nel prevedere un incremento della tassazione sugli utili di queste ultime. Resta la possibilità di modificare nel corso dell’iter parlamentare questa norma della legge di stabilità, onde prevenire effetti perversi sulla già ridotta dotazione di risorse finanziarie destinate al volontariato.

TITOLI DI SOLIDARIETÀ

 

Il recente decreto in materia di terzo settore, tra le altre misure, contempla la diffusione di “titoli di solidarietà”, che paiono individuare categorie di bond attualmente già esistenti, che destinano al sociale una certa percentuale dei proventi e che rappresentano in buona sostanza, canali di beneficienza. Sembrano non essere considerati, invece, strumenti finanziari di rischio quali i social impact bond, sperimentati soprattutto nei paesi anglosassoni per attività di tipo sociale “preventivo”, volte cioè a prevenire situazioni di disagio (ciò nonostante tali strumenti vengano citati in un recente documento di consultazione governativa). La redditività di tali titoli è legata all’impatto che essi sono idonei a produrre, nonché percentualmente determinata dal livello dell’impatto stesso. Sembra quasi che stentino a essere introdotti criteri di misurazione dell’efficienza dei fondi impiegati per il sociale, così come di valutazione economica dei risultati ottenuti dagli operatori del terzo settore. Come mai in Italia è così difficile introdurre verifiche di efficienza, efficacia e merito?

Credo che la risposta risieda in una sostanziale e complessiva difficoltà di apportare l’innovazione in ogni ambito di impresa, nel sistema italiano, complice anche una legislazione che tende a scoraggiare in sé il processi riformatori della cultura di impresa esistente. In questo credo che la sperimentazione dei social bond sia di per sé limitata, in quanto il sociale, come ambito di impresa, non differisca poi molto da questo generale gap di ritardo culturale nel produrre innovazione. Inoltre, il focus dell’innovazione sperimentato dalle imprese sociali si è più orientato nella individuazione di aree di fabbisogno e intervento sociale, ormai insoddisfatti dalle carenze finanziarie dei soggetti pubblici e non ancora remunerativi per l’intervento di operatori “puri” di mercato; questo aspetto ha posto in secondo piano la redditività della propria attività per le imprese sociali. Inoltre, occorre, a mio avviso, ricordare come, a fronte di una davvero recente capacità del  sistema italiano di proporre indicatori di misurazione economica dell’impatto sociale dei soggetti di terzo settore (è il caso del BES, l’indicatore di benessere equo e sostenibile elaborato dal 2012 da CNEL e ISTAT per affiancare il Prodotto Interno Lordo), l’impiego di strumenti e criteri di analisi e valutazione, anche economica, dell’impatto sociale degli interventi di organismi di terzo settore, è strutturalmente più sviluppato in sistemi come il Regno Unito: questa più strutturata tradizione tanto nel settore del welfare partecipativo, quanto nella valutazione delle politiche pubbliche, ha favorito la nascita di strumenti più maturi come i social impact bond, da noi, di fatto, di difficilissima applicazione per deficit tanto sul lato dell’offerta quanto sul lato della domanda.

L’INTERVENTO PRIVATO

 

E’ necessario superare la concezione dell’intervento del privato quale “benefattore”, in forza della quale la sussidiarietà, principio di rango costituzionale (art.118 Cost.), appare di conseguenza intesa in una accezione “parziale”. Sembra quasi che certi settori, tradizionalmente finanziati dallo Stato, non possano essere “inquinati” dall’elemento privatistico del profitto. Nonostante le dichiarazioni in senso opposto fornite dal Governo, non ha l’impressione che continui a sussistere una sorta di pregiudizio? Non trova che la gestione di fondi destinati a fornire servizi alla collettività potrebbe trarre giovamento dall’adozione di pratiche di management-by-objectives?

L’introduzione dei criteri di efficienza, efficacia ed economicità previsti dal New Public Management come nuovo paradigma organizzativo di efficientamento, ha tardato a trovare una sua applicazione nel settore pubblico, anche laddove avrebbe dovuto: penso soprattutto all’esempio delle società partecipate o controllate dagli Enti locali nel settore delle public utilities. Credo che sia molto complicato, e forse anche non pienamente appropriato, pensare di utilizzare, in modo esogeno, questo tipo di logica per soggetti collettivi operanti nell’ambito della sussidiarietà verticale, come le organizzazioni di Terzo Settore. Tali realtà organizzative spesso si attivano, con quelle risorse scarse che non consentirebbero più al settore pubblico di essere operativo nell’erogazione diretta, in ambiti di policy ormai derelitti dall’intervento pubblico, come il sociale, vera cenerentola delle politiche pubbliche italiane. Penso che anche nel caso in cui ci sia questa residuale sovvenzione del pubblico nei confronti delle organizzazioni di terzo settore, mediante convenzioni o affidamenti, sia più utile che i soggetti del privato sociale abbiano la piena indipendenza nel selezionare i criteri di gestione, fermo restando il sistema di controlli pubblici operante.

REGOLAMENTARE LE LOBBYING

Riuscirà finalmente l’attuale governo non solo ad avviare, come già avvenuto in legislature precedenti, ma soprattutto a portare a compimento la regolamentazione del lobbying? In quale modo ciò potrebbe fattivamente giovare alla molteplicità di interessi coinvolti nel Terzo settore?

In relazione alla prima parte della domanda, credo sia molto difficile giungere ad una regolamentazione piena e completa dell’attività di lobbying nel corso dei mille giorni che l’esecutivo Renzi si è posto come orizzonte temporale.  A partire dal contesto politico, mi sembra più probabile che possa essere approvata una disciplina più limitata, riferita a singoli aspetti in cui l’attività di lobbying intervenga a latere, come il settore degli appalti pubblici.

Al tempo stesso vorrei rilevare come una disciplina del lobbying, basata ad esempio sul modello europeo del Registro per la trasparenza, possa aprire delle opportunità interessanti per l’emersione dell’attività di rappresentanza degli interessi sociali dei gruppi di terzo settore. Il grande merito, a mio avviso, dell’esperienza europea, è di aver liberato e dato dignità alla rappresentanza di interessi non strettamente connessi con l’attività economica, prevedendo la possibilità di fare lobbying nei confronti delle istituzioni politiche europee anche per i gruppi di pressione legati al sociale, alla cultura, al fenomeno religioso e alle rappresentanze territoriali e consentendo, in questo modo, un più ampio pluralismo nell’azione di lobbying. Un modello di regolamentazione dell’attività di lobbying non può che prendere le mosse dal riconoscimento dell’esistenza di una pluralità di soggetti collettivi, non solo dei gruppi di natura economica, alla ricerca di una relazione istituzionale con gli attori politici del sistema italiano. In questo senso, è da notare come l’attuale processo di riforma del Terzo Settore italiano, operata dal Governo Renzi a partire dal DDL 2617 non faccia altro che dimostrare che anche le realtà associative del privato sociale italiano siano in grado di relazionarsi con il sistema politico ed istituzionale, formulare delle richieste, cercare di individuare canali di influenza per ottenere output regolativi e di politiche pubbliche conformi all’orientamento degli interessi di cui si è portatori. Fornire un quadro di riferimento per la regolazione, in senso partecipativo, trasparente e democratico, per tutti i soggetti collettivi alla ricerca di una relazione con il sistema istituzionale non può che migliorare il contributo di questa pluralità di gruppi al processo pre-decisionale dell’azione di policy making.  


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