L’accordo con l’Iran non s’è fatto. Nonostante l’ottimismo delle ultime settimane, nelle quarantott’ore prima della scadenza del negoziato si era capito che le distanze erano ancora notevoli, e l’obiettivo non alla portata.
Un peccato, perché il tavolo negoziale è adesso limitato a vere e proprie tecnicalità, nel quadro complessivo di una reciproca volontà delle parti per individuare una soluzione al problema.
Il negoziato viene quindi prorogato di sette mesi, sino al 1 luglio del 2015, con la tacita intesa di un tentativo per accelerare la soluzione al prossimo marzo, prima tappa intermedia del processo.
Resta valido anche il Joint Plan Of Action che regola i rapporti tra l’Iran e le sue controparti, ed in virtù del quale l’Iran potrà accedere nei prossimi otto mesi a proprie somme congelate per un totale di 4,2 miliardi di dollari, in sette tranche da 700 milioni di dollari l’una.
Incombe tuttavia sulla tenuta della proroga l’insediamento del nuovo Congresso degli Stati Uniti, dove alcuni falchi spingono sin d’ora per un incremento delle sanzioni all’Iran. Decisione improvvida, che arresterebbe immediatamente ogni ulteriore possibile progresso.
CHI NEGOZIA E COSA LI DIVIDE
La prima considerazione sul negoziato nucleare di Vienna è quella relativa alle parti sedute al tavolo. Per quanto amara possa essere la riflessione per gli europei, siedono al tavolo sostanzialmente solo due attori: l’Iran e gli Stati Uniti.
L’Iran è coadiuvato nel processo negoziale da due alleati, la Russia e la Cina, con i quali condivide buona parte della propria strategia e soprattutto delle motivazioni alla base del contendere. Gli Stati Uniti sono invece accompagnati da un confuso consesso di attori composto dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dalla Germania, oltre all’onnipresente figura dell’Alto Commissario dell’Unione Europea, in un insieme disomogeneo, conflittuale e, soprattutto, ideologicamente discordante quando si parla di Iran.
Agiscono come attori esterni del negoziato – con una capacità più o meno concreta di influenza – Israele e l’Arabia Saudita, accomunate da un’improbabile quanto estemporanea condivisione di strategie per fronteggiare il comune nemico iraniano. In un sodalizio dettato dalla necessità di trasformare l’Iran in una minaccia esistenziale, funzionale tuttavia più alla catalizzazione delle proprie controverse e delicate dinamiche politiche domestiche.
La seconda considerazione deve invece riguardare gli elementi che non hanno permesso di raggiungere l’accordo entro la scadenza del 24 novembre. In primo luogo hanno rappresentato un ostacolo al negoziato le centrifughe attualmente operative in Iran, circa 9.400, a fronte di una richiesta delle controparti inizialmente formulata per un massimo di 1.500 e successivamente aumentata a 4.000.
C’è poi la questione dell’uranio già sottoposto a parziale processo di arricchimento, che le controparti dell’Iran chiedono venga convertito in modo da non poter essere successivamente ulteriormente arricchita. E c’è anche la questione delle ispezioni nel complesso di ricerca di Parchin, che deve essere regolata attraverso l’erogazione di permessi simili a quelli che regolano l’accesso negli altri impianti del complesso infrastrutturale nucleare iraniano.
Gli Stati Uniti hanno espresso la volontà di poter definire con l’Iran un accordo che consenta di non lavorare sui singoli elementi della filiera, ma sul suo complesso. In modo da poter garantire un programma industriale incapace di derive militari.
Dall’altra parte l’Iran ha manifestato più volte aperture sulla gran parte degli elementi negoziali, chiedendo tuttavia come contropartita l’abolizione complessiva delle sanzioni che affliggono il Paese, e la non estensione dei termini del negoziato ad ambiti terzi, come i diritti umani, la politica regionale o lo sviluppo del programma missilistico.
Ciò che l’Iran domanda, in sintesi, è una soluzione win win e di lungo periodo del negoziato, e non la semplice soluzione di un tassello al quale – sospetta – seguirebbe poco dopo una ulteriore serie di richieste, nell’ottica di limitare, o addirittura impedire, le ambizioni di politica regionale del paese.
COSA ACCADRÀ
Probabilmente nulla di apocalittico. Nonostante la radicalizzazione delle richieste arabe e israeliane, e la più volte paventata azione ostile del Congresso USA, la gran parte degli attori globali interessati dal processo negoziale è accomunata dalla volontà di individuare una soluzione al problema.
È quindi probabile che un accordo possa essere raggiunto entro la successiva scadenza, e forse anche prima, nonostante le molte variabili potenzialmente in grado di turbare questo cammino.
Negli Stati Uniti e in Iran, veri grandi attori della partita, prevale un cauto pragmatismo dei rispettivi vertici politici, caratterizzato dal gioco del bad cop e good cop, dove da una parte gli attori sono il Congresso e il Presidente, e dall’altra le fazioni radicali e quelle moderate.
Sia a Washington sia a Tehran hanno necessità di arrivare ad una soluzione del problema, anche se la gran parte degli ostacoli non è sulla natura dell’accordo, quanto piuttosto su una consolidata e reciproca mancanza di fiducia nella controparte. Questa è l’essenza del problema tra Iran e Stati Uniti. La frattura politico-ideologica consumatasi trentacinque anni fa con la rivoluzione non è mai stata composta dai due attori, per colpa anche dell’ambiguo ruolo dei rispettivi alleati, che sull’inimicizia tra Tehran e Washington hanno costruito molti dei propri interessi regionali.
I tempi sono tuttavia mutati, ed entrambi puntano oggi se non ad un vero e proprio processo di normalizzazione – per il quale sarà richiesto qualche passo in più da entrambe le parti – almeno ad una cauta apertura sul fronte del dossier più delicato, quello nucleare. Risolto questo, ben poco potrà impedire ai due attori di avviare l’inesorabile cammino della riconciliazione.
Turbando il sonno della gran parte dei Paesi del Golfo Persico, di Israele, ma anche della Russia e della Cina, che certo non vedrebbero di buon grado una ripresa delle relazioni tra i due storici nemici.