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La provincia fondata sulla Bellezza

Ieri sera ero su un balcone con la faccia tra i ferri di un’inferriata e sbirciavo i rivoli in cui scorrevano pezzi di vita. I rivoli della vita di provincia che si sparigliavano e si riordinavano come quando, a ricamarne il destino, è la spola sulla tela. La vita di provincia è nelle mani di personaggi autentici, vivissimi e verissimi. Tutti, a tuttotondo.
Scanzonati come le cicale, operosi come le formiche. Come Ivan e Natascia ad esempio che vogliono fare della provincia la culla per un anfiteatro che dispensa arte e cultura. Stupore e meraviglia.
Due, uniti dal sangue che non mente mai, pronti a saltare nel volgersi della stessa settimana dai cori che puntano all’Altissimo a quelli più pop.
Con gli occhi tra quei ferri, a delimitare il campo lungo della mia camera di ripresa, ho visto Ilenia gestire, sola, la clientela di un bar che era pied-à-terre di un hotel con annesso ristorante. Regina mora e bellissima che aveva dell’ape più importante la regalità e al tempo stesso l’organizzazione e la tenacia delle sue operose suddite. E che con tale miscela di abilità dispensava ai fuchi avventori il più prelibato dei nettari: il come perdere tempo.
Ho visto Emilio e l’ho ascoltato mentre parlava di bellezza. D’identità. Di come Taranto, Taras e dunque Sparta, può rinascere dalle polveri maledette come una Fenice. Capitale di tutti gli spartani del mondo che oggi sono senza una casa. Perché Sparta, la Sparta di Leonida è poco più di un piccolo villaggio mentre gli spartani, cioè coloro che non mollano mai, sono tantissimi e in tutto il mondo. L’ho sentito parlare di bellezza e di cultura, ché le due vanno a braccetto. Di bellezza dimenticata, vilipesa, imbrattata. Che è come il Lacoonte, bellissimo, ma preso tra le spire dei serpenti che evocano l’indolenza e l’asfissia di una politica che non sa farsi esempio e che non riesce a garantirsi la sua sopravvivenza se non con politiche che scambino i fini con i mezzi.
La bellezza, ma questo non l’ho sentito, è cosa assai fragile. E averne troppa di bellezza vuol dire più oneri che onori. Non a caso il poeta di Recanati nella bellezza specchiava la morte. Perché il bello è così bello da portarsi con sé l’inquietudine della precarietà, della contingenza, il senso della fine.
Si sgretola la bellezza ed è talmente fragile che l’uomo messo a custodirla la trascura, la trova troppo esigente. Chiedetelo alle donne bellissime quanto è dura conservare la bellezza. La manutenzione, quella delle creme, non basta se non si riceve un amore infinito.
Poi, ho visto Michele. Che, con i guanti bianchi e un bastone elegante, ancheggiava cantando: – Ta-tà, ta-tàbù. E dai suoi baffoni fumanti disegnava volute che ricordavano Perelà.
Dalla voce di Pietro ho invece sentito le suggestioni che venivano da Oriente. Quelle che evocavano dell’alba la luce che si allungava come un’unghia su tutta la piazza. La luce di quelle suggestioni svelava, per forza di chiaroscuro, le bellezze di quella parte di provincia: i chiostri, i campanili, le facciate, i colori delle murature. L’ho visto soffiare su quegli scorci di provincia la polvere d’oro della spiritualità perché sostituisse il peggiore nemico della bellezza: la solitudine. L’ho visto mentre guardava suggerendo di guardare il riverbero sulle pozzanghere su cui si specchiavano tacchi vertiginosi. Quelli che, nell’operosità fuligginosa delle mattine di Novembre, fuggono lungo le viuzze di ciottoli irregolari, mentre attirano sguardi umidi di distinti signori che sulla soglia delle caffetterie fumano di tabacco e di desiderio che si fanno un tutt’uno con l’aroma di zucchero bruciato. L’armonia perfetta di un disegno sociale a misura d’uomo.
Quanto è bella la provincia che sa rimanere in piedi e che ha imparato a fare cose che rimangono diritte anche quando si è nelle curve. Il Pendolino.

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