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L’Unione monetaria europea e la Costituzione italiana

Ieri si è svolto un seminario sul futuro dell’Europa (qui il resoconto del cronista Edoardo Petti) organizzato dall’europarlamentare di Forza Italia, Raffaele Fitto. Hanno partecipato gli esperti Paolo Savona, Antonio Maria Rinaldi e Luciano Barra Caracciolo. La relazione di Savona è sintetizzata in questo articolo; l’intervento di Rinaldi si può leggere qui; e di seguito pubblichiamo il contributo di Barra Caracciolo.

I. Il problema da cui dobbiamo muovere è se il modello economico impostoci da Maastricht sia adatto alla c.d. specializzazione produttiva che ha caratterizzato orgogliosamente lo sviluppo italiano del dopoguerra. La risposta, nei termini suggeriti da Guido Carli nel 1974, non appena ebbe occasione di commentare il primo progetto di “moneta unica” contenuto nel c.d. rapporto Werner del 1971, non può che essere negativa. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Negare questa radice causale della crisi italiana non risponde oggi più ad alcuna realistica convenienza politica.

II. Il secondo interrogativo che propongo è: questo modello di Unione economica e monetaria sarebbe stato consentito dalla Costituzione?
La risposta è di importanza cruciale: a nessun esponente politico che abbia a cuore l’interesse effettivo del proprio Paese, dovrebbe sfuggire l’enorme sostegno che uno sbarramento fondato sulla Costituzione può fornirgli per la stessa riappropriazione del suo ruolo:
a) di creatore di indirizzo politico;
b) di titolare di effettivi strumenti di politica economica e fiscale previsti nella stessa Costituzione.
Senza questa effettività di poteri, il “lo vuole l’Europa” lo condanna, ormai, entro poco tempo, a politiche di governo che, violentando le forze vitali produttive che STRUTTURALMENTE caratterizzano il nostro Paese, giungono rapidamente alla perdita del consenso.

III. Il primo e più agevole test di compatibilità costituzionale che possiamo fare è quello che passa per l’art.11 Cost.:
“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”
Ebbene, il Trattato di Maastricht con tutti i suoi sviluppi successivi non corrisponde a nessuna delle condizioni poste dall’art.11, che è principio fondamentale della Costituzione non assoggettabile a lecita revisione.

Primo: mancavano le condizioni di parità. Se si poneva ab initio un limite unico, e per di più INTESO come IMMUTABILE, di deficit-indebitamento pubblico, l’onere imposto a paesi con diversi oneri passivi per il debito pubblico sarebbe stato immediatamente e gravemente disparitario. Basti dire che Germania e Francia, agli albori degli anni 90, non superavano un onere degli interessi passivi pari al 3%,; e SUCCESSIVAMENTE NON L’HANNO MAI SUPERATO. Il nostro onere era circa QUATTRO VOLTE. E tutt’ora è praticamente doppio.

Secondo: ogni adesione a un trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale può essere SOLO VOLTA AD ASSICURARE LA PACE E LA GIUSTIZIA TRA LE NAZIONI. I Costituenti trattarono esplicitamente questo punto, escludendo per fatti concludenti i trattati economici che non fossero strettamente e oggettivamente funzionali a questo fine.
Ora, l’Unione non lo è: frutto di una visione di free-trade, è COME TALE, portata alla enunciata e esasperata COMPETIZIONE COMMERCIALE TRA STATI (conforme alla radici teoriche di Ricardo e del modello più recente di free-trade, Hecksher-Olhin-Samuelson).
I risultati anche qui sono sotto gli occhi di tutti: mai lo spirito di cooperazione e di appartenenza comune e solidaristica alla casa europea è stato così basso.
Questo perché il trattato, nelle sue norme fondamentali, promuove soltanto un’economia fortemente competitiva, tra Stati, e la stabilità dei prezzi che ne è il corollario tipicamente liberoscambista.
Inoltre il trattato, – con gli artt.123-125 e la stessa clausola di solidarietà (di mera apparenza) ex art.222 TFUE-, esclude, cioè vieta, espressamente ogni natura solidaristica.
E questa esclusione non può non considerarsi clausola essenziale cui i paesi più forti hanno subordinato la loro adesione, dandoci un primo realistico e fondamentale dato sui margini di trattativa praticabili per cambiare i trattati.

Terzo: la Costituzione non ammette CESSIONI di sovranità, e né potrebbe ammetterle qualsiasi Costituzione democratica, perché paventa l’irreversibile pericolo di compromissione del MODERNO RUOLO DELLA SOVRANITA’: LA CURA DEI DIRITTI FONDAMENTALI e del benessere DEI SUOI CITTADINI.
Perciò la Costituzione ammette solo LIMITAZIONI, cioè reversibili e consapevoli AGGIUSTAMENTI DEI PROPRI STRUMENTI DI POLITICA ECONOMICA e purché permanentemente volte a promuovere l’effettivo benessere dei suoi cittadini.
Il che dovrebbe escludere la legittimità costituzionale di ogni vincolo derivante da trattato economico che NON SIA SOTTOPOSTO A UN TERMINE (finale: o comunque un termine di sua revisione periodica, con possibilità di recedere a tale scadenza).

Dovendo essere breve, e sperando di poter integrare questa relazione con uno scambio di domande-risposte, arrivo a concretizzare gli effetti del funzionamento dell’UEM caratterizzata dalla confluente combinazione di
A) limiti rigidi e perenni all’indebitamento pubblico;
B) moneta unica inclusiva di cambi fissi altrettanto immutabili.
Il secondo aspetto è presto detto: basta confrontare l’andamento dei saldi delle nostre partite correnti BdP con la fissazione della parità col marco (com’è noto avvenuta nel 1996: per la Germania un ribaltamento positivo e per l’Italia l’inverso).

Il venire meno della domanda estera, in una progressione distruttiva e manifesta, è evidente. Ed esso comporta un PRIMO EFFETTO di CONTRAZIONE DELLA BASE IMPONIBILE che costrinse, da subito (fin dall’esigenza post-Maastricht di rispettare i “criteri di convergenza”), l’Italia ad aumentare il carico fiscale, in una rincorsa crescente e senza apparente fine.

Il primo effetto menzionato, quello relativo alla rigidità fiscale del trattato (su deficit e debito pubblico) è ancor più evidente: se taglio il deficit pubblico, inevitabilmente, taglio il reddito-spesa pubblica e inevitabilmente il reddito privato, e lo stesso PIL. Specie se l’onere passivo degli interessi sul debito è superiore al tetto consentitomi (a differenza che per gli altri paesi “concorrenti”).
Ciò punisce la formazione del risparmio nazionale, l’effettiva possibilità di investimenti e si è ancor più costretti ad inasprire la pressione fiscale per l’ulteriore venire minor crescita, o addirittura saldo negativo, della base imponibile.

A parte la ovvia insostenibilità di medio-lungo periodo di tale situazione sugli indispensabili investimenti – investimenti che il settore privato può autonomamente generare grazie alla formazione del risparmio PRIVATO consentito dal deficit (e cioè a parte la DEINDUSTRIALIZZAZIONE che ciò inevitabilmente comporta)-, va aggiunto un altro aspetto fondamentale.
QUAND’ANCHE, attraverso questa compressione della domanda interna e quindi dell’inflazione, REALIZZASSI LA SPERATA CRESCITA DELL’EXPORT, ciò non risulta INDIFFERENTE su CHI REALIZZA IL RISPARMIO derivante da questo indirizzo economico imposto dall’UEM: una crescita esclusivamente export-led che, tra l’altro, nessuno ha MAI realizzato con una VALUTA SOPRAVVALUTATA COME L’EURO, neppure la Germania (infatti per essa l’euro è valuta SOTTOVALUTATA).

Se infatti mantengo (o avessi potuto mantenere) il deficit-spesa pubblica in misura tale da sostenere la domanda, – cosa che in Italia è cessata praticamente dal dopo-Maastricht attraverso una spettacolare serie di SALDI PRIMARI, senza pari nella storia dell’economia moderna-, il risparmio corrisponde a tendenziale piena occupazione (cioè si traduce quasi integralmente in investimenti). E questa è, o sarebbe, la volontà esplicita dei citati artt.1, 3 capoverso e 4 della Costituzione.

Ma la Costituzione vuole anche, con LO STRETTAMENTE connesso art.47 Cost., che il RISPARMIO SIA DIFFUSO: e ciò esplicitamente per favorire l’accesso di ogni cittadino alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e all’investimento azionario “nei grandi complessi produttivi del paese”, e vuole anche il risparmio per favorire la tutela e lo sviluppo dell’impresa artigiana (art.45, comma 2, Cost.) cioè delle PMI correttamente intese.
Se dunque AZZERO O RIDUCO IL DEFICIT secondo un TETTO IMMUTABILE DETERMINATO DA UN TRATTATO, il possibile risparmio sarà, nella migliore delle ipotesi, concentrato nelle imprese esportatrici – ammesso che la Nazione riesca a mantenerne la proprietà- e sarà NULLO O NEGATIVO PER TUTTO IL RESTO DELLA POPOLAZIONE ITALIANA.

Seguendo dunque la politica dettata dall’adesione all’euro, la Costituzione viene integralmente sovvertita (come appunto evidenziò Guido Carli): non solo si abbandona irreversibilmente la piena occupazione e la tutela dei redditi, ma si avrà, – e infatti si è avuta- una drastica riduzione dell’accesso alla proprietà dell’abitazione, con crisi del settore edilizio, delle imprese artigiane, con progressiva distruzione del tessuto delle PMI, e un drammatico diffondersi delle insolvenze, cioè delle “sofferenze” che poi innescano il credit crunch-.

Tutto questo è oggi sotto i vostri occhi: e la Costituzione non lo permette. O non lo “permetterebbe”.


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