FONTE: http://oltremedianews.it/muro-berlino-25-anni-dopo-25-anni/
La mattina del nove novembre 1989, esattamente 25 anni fa, la stampa di tutto il mondo annunciava raggiante l’apertura della frontiera che divideva la RDT (Germania Est) e la RFT (Germania Ovest) dal lontano 1961. I commenti a caldo diramati dai politici e dai media occidentali parlarono della fine dell’utopia del socialismo reale, del fallimento delle economie pianificate e di un luminoso inizio di pace e prosperità mondiale all’insegna delle libertà economiche, vero discrimine tra il successo atlantico ed il fallimento sovietico. Più che soffermarci sulle vicende umane e sulle celebrazioni pubbliche dell’evento, che pur sono indispensabili per una ricostruzione puntuale della vicenda, vogliamo domandarci come stiano venticinque anni dopo quegli stati che vissero l’un contro l’altro armato dalle parti opposte del muro.
Chi ha visto Goodbye Lenin di Wolfgang Becker ha sicuramente negli occhi lo stridore tra la sofferenza orgogliosa dei socialisti di ferro e l’euforia generale che attraversava il mondo atlantico, quello che nessuno avrebbe esitato a scegliere e di cui tutti ammiravano la ricchezza. Ma anche chi non ha visto il film avrà sicuramente avuto modo di attingere ad un po’ di letteratura sulla vicenda e non faticherà ad ammettere che in molti avrebbero scommesso su una propagazione osmotica della ricchezza occidentale al blocco sovietico e sull’inizio di un periodo di sostanziale pace e prosperità.
Cosa ne è della Germania e dei paesi ex sovietici venticinque anni dopo? I dati ci raccontano una storia molto diversa da quella che molti immaginavano. Per molto tempo, e dobbiamo ammettere che succede tutt’ora, la maggioranza dei commentatori del processo di unificazione delle due Germanie ha posto l’accento sulla generosità paternale con cui la RFT ha finanziato e ristrutturato la sofferente RDT facendola entrare nell’olimpo dei paesi avanzati. Con il suo libro Anschluss (L’annessione), Vladimiro Giacchérecupera una preziosissima serie di testimonianze dell’epoca mai tradotte in italiano e, alla luce delle recenti stime numeriche, traccia una storia decisamente meno trionfale e ottimista di quella solitamente riportata. Ai lettori più attenti non sfuggirà che Giacché parli di “annessione” e non di “unificazione”, evocando il termine usato dal Terzo Reich a proposito dell’invasione dell’Austria nel 1938. Secondo Giacché la RFT, lungi dal fornire aiuti paternalistici alla RDT, avrebbe attuato una politica di impronta marcatamente neo-mercantilista nei confronti dell’altra Germania.
La Repubblica Democratica era infatti un polo industriale e scientifico così avanzato da poter trattare quasi alla pari con il governo di Mosca e il suo apparato produttivo divenne una preda estremamente ambita per il governo dell’Ovest. Oltretutto la RFT vantava un grado di iniziativa economica privata tale da far ritenere a molti, una su tutti Christa Luft, che la sua sconfitta vada ricercata più nell’isolamento commerciale e nelle scarse libertà di movimento dei cittadini, piuttosto che nella scarsa dinamicità della sua economia. L’apertura del muro si è concretizzata in una sostanziale razzia occidentale della potenza industriale della Germania socialista, di cui venne presto raso al suono ogni simbolo e verso la quale si instaurò una netta damnatio memoriae. Le grandi imprese della Repubblica Federale acquisirono a prezzi stracciati gli impianti produttivi dell’Est e i finanziamenti verso la RDT constavano essenzialmente di partite di giro su cui vennero applicati esosi interessi. L’unione monetaria ha infine completato il processo di annessione. Nonostante gli stessi dirigenti occidentali, in primis Schäuble e Karl-Otto Pöhl, allora rispettivamente ministro degli Interni e presidente della Bundesbank, ritenevano che si trattasse di una manovra decisamente irrazionale dal punto di vista economico, il cambio tra le monete dell’est e quello dell’ovest passò da un rapporto semi – ufficiale di 4,4 a 1, alla parità di 1 a 1. La svalutazione competitiva della moneta della RFT, che ha reso i beni occidentali decisamente meno costosi, è stata inoltre accompagnata da un processo di unificazione troppo rapido che ha depauperato, e in gran parte razziato, la ricchezza dell’Est.
La contrapposizione tra economie pianificate ed economie di mercato, come sappiamo, non si è declinata solo nella contrapposizione tra RDT ed RFT. Cos’è successo nel resto dei paesi ex URSS?
Branko Milanović, noto economista serbo, ha analizzato più volte l’andamento delle disuguaglianze e del reddito nei paesi ex sovietici prima e dopo la transizione all’economia capitalista. I risultati empirici delle sue analisi mostrano come solo una piccola quota di paesi ex comunisti abbia oggi un tenore di vita superiore ai livelli del 1990. Milanović classifica tali stati in base ai tassi di crescita del pil reale pro – capite negli ultimi 25 anni in quattro categorie: i paesi che ad oggi hanno un livello di pil pro – capite inferiore al 1990, i paesi che sono cresciuti con tassi inferiori all’1,7% (tasso medio di crescita dei paesi OCSE), gli stati cresciuti con un ritmo tra l’1,7% ed il 2% e, infine, coloro che sono cresciuti con tassi superiori al 2%. Nel primo gruppo, quello dei paesi che hanno subito senza appello la transizione, rientra circa il 20% della popolazione totale delle economie ex sovietiche. Ci riferiamo a Moldavia, Ucraina, Georgia, Bosnia e Serbia che, ai tassi attuali di crescita, devono aspettare circa 50 – 60 anni prima di tornare ai livelli di pil pro – capite dell’epoca comunista. Nel secondo gruppo (Macedonia, Croazia, Russia e Ungheria) rientra circa il 40% dell’ex popolazione dell’URSS, mentre nel terzo gruppo (Repubblica Ceca, Slovenia, Turkmenistan, Lituania e Romania) troviamo circa il 10% della popolazione totale di tali economie. I paesi che invece hanno visto segnare un netto miglioramento delle loro condizioni sono 12 e tra di loro troviamo Uzbekistan, Lettonia, Polonia, Estonia, Bulgaria e Slovacchia.
Tuttavia il pil pro – capite misura solo una parte della storia che racconta Milanović. Guardando alla distribuzione della ricchezza si osserva che in ciascun paese la disuguaglianza, misurata sulla base dell’indice di Gini, è aumentata di oltre 10 punti, il doppio di quanto osservato per l’Europa atlantica. In sintesi: più poveri e più disuguali.
La situazione non migliora se usciamo dall’alveo economico per entrare in quello umanistico. L’URSS, nel ‘900 madre di alcuni degli intellettuali e degli artisti più influenti di sempre, appare oggi priva di quella spinta culturale che ha saputo dar vita ad alcune insuperabili vette del pensiero mondiale. Non è un caso che il modello educativo sovietico, seppur sicuramente carente sotto il punto di vista della pluralità e dell’indipendenza che meriterebbero gli studi di ogni grado, garantiva accesso gratuito ai teatri e un’educazione musicale e letteraria raramente riscontrata nella storia.
Come sempre accade quando si guarda alla storia occorre dunque distinguere la versione politica da quella scientifica. Bollare l’URSS come un esperimento mal riuscito di ingegneria antropologica è un tentativo tanto fallimentare come la sua apologia tout court,ma per evitare di ricadere nella banalità di chi si pone sempre nel mezzo occorre guardare dunque alla “storia scientifica” e, ci auguriamo, dovrebbe ormai essere chiaro che il crollo del mondo sovietico non ha sancito né la fine della storia né ha posto le basi per il benessere e la prosperità mondiali, anzi. Seppur con le dovute accortezze, dopo venticinque anni, più di qualcuno stava meglio venticinque anni fa.
Fonti:
http://glineq.blogspot.it/2014/11/for-whom-wall-fell-balance-sheet-of.html
https://www.gc.cuny.edu/CUNY_GC/media/CUNY-Graduate-Center/PDF/Centers/LIS/Milanovic/papers/Income_ineq_poverty_book.pdf
http://quattrocentoquattro.com/2014/09/19/affinita-e-divergenze-tra-la-germania-est-e-il-mezzogiorno-anschluss-di-vladimiro-giacche/
http://www.resistenze.org/sito/te/cu/st/cust9l29-005630.htm