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Nel Pd sento un forte odore di anarchismo d’antan sul Jobs Act

Assemblea costituente, maggio 1947: il democristiano Costantino Mortati presenta un emendamento che sottopone il diritto dei cittadini di riunirsi liberamente in partiti alla condizione “che si uniformino al metodo democratico nell’organizzazione interna e nella azione diretta alla determinazione della politica nazionale”.

Le ragioni dell’opposizione di tutti i partiti della sinistra – ma anche i liberali erano contrari – vengono così riassunte da Tristano Codignola (allora azionista): “Se passasse questo emendamento, noi verremmo a sopprimere una delle garanzie fondamentali della vita democratica del paese; in quanto trasferiremmo il giudizio sulla democraticità interna dei partiti dalla sede costituzionale alla sede politica, e cioè alla maggioranza parlamentare, che verrebbe in qualsiasi momento a disporre arbitrariamente dei poteri di intervenire nella vita democratica del paese e nella vita interna dei partiti […]”.

Dopo le dichiarazioni di voto, Mortati ritirò l’emendamento e all’Assemblea passò il forte impianto garantistico dell’articolo 49. Un impianto in cui poteva trovare accoglienza qualunque principio, anche quel centralismo democratico del Pci che per Palmiro Togliatti e Enrico Berlinguer assicurava “l’indispensabile unità nell’orientamento e nel lavoro del partito”.

Di quel metodo abbiamo conosciuto le degenerazioni burocratiche e i rischi di autoritarismo a cui era congenitamente esposto. Tuttavia, era un metodo. Al contrario, pensando anche al tormentone interno sul Jobs Act, nel partito di Renzi c’è ormai un forte odore di anarchismo d’antan, una specie di “ciascuno per sé e nessuno per tutti”.


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