Un arbitro chiamato abitudini ci fischia sempre in “fuorigioco”. Siamo, per un’Italia al rilento, una ciurma di giovani donne e uomini, senza una generazione di appartenenza per far valere i propri diritti. Anche le classificazioni sociologiche non sanno dove piazzarci e ci buttano a volte in mezzo al generico 2.0 dove finisce tutto ciò che non comprendono più.
La cosa più bella della mia generazione è che ama condividere con gli altri, non è individualista, no diteci tutto ma noi non lo siamo, piuttosto non ci convincono sempre le organizzazioni del 900, così come sono, ma perché abbiamo un innato bisogno di apportare innovazione, di far coesistere vecchio e nuovo sarà perché siamo stati i primi figli di genitori divorziati, sarà per questo che abbiamo sempre quel bisogno lì di tenere insieme i pezzi e lo facciamo con i libri e le tecnologie, con le cabine e i cellulari (che usiamo per fotografare quelle che cambiano destinazione d’uso diciamo così). Noi ci annoiamo facilmente forse è vero perché come diceva Moravia: la noia è l’assenza di relazione tra le cose. Noi abbiamo “la fissa” sempre di voler creare relazioni tra le cose, siamo dei link viventi. Non è sempre facile essere “Quelli che il 2000”, siamo in un mondo (occidentale) in cui le certezze tremano sotto i piedi. Quelli che il 2000 che poi sono “una non generazione”: saltata a piè pari la loro rappresentanza, perché sono pieni di anomalie, rarità, eccezioni ed eccellenze difficili da collocare in un arido archivio, in una categoria, in un mondo piatto, ecco il vero motivo per cui si va fuori. Si va all’estero, si sceglie e si trova di meglio altrove, perché c’è un mondo più simile a noi, e ringrazio Roberto Maragliano che ieri mi ha scritto dal Brasile:
‘Semplicemente guardano al futuro esattamente come noi guardiamo al passato. Non avere storia (e non fare storie) li aiuta. Ciao baci’.