Mi fa specie la signora Orlandi, da alcuni mesi a capo dell’Agenzia delle Entrate. Signora che, sono sicuro, essere persona seria, onesta e per bene. Mi fa specie non tanto perché è intervenuta di recente – la prima volta nella storia, per una figura istituzionale di vertice – a una manifestazione correntizia del premier in carica (si veda qui l’intervento alla Leopolda nelle scorse settimane).
Non tanto perché dà del “Matteo” al premier, come Renzi stesso – per carità – vuol farsi chiamare (ma senza considerare che questo tipo di invito è rivolto al cittadino-elettore e non a una carica istituzionale di vertice). E neppure perché, giunta – quasi casualmente – sul carro del vincitore, oggi cavalca l’onda, al punto da pronunciare in prima persona lo slogan di partito (cambiare verso). Ve le immaginate, nel recente passato, figure di vertice come Canzio, Befera o Manganelli, partecipare a manifestazioni interne a Forza Italia e dare pubblicamente del “Silvio” al premier in carica?
Tutto ciò non mi fa specie, e credo che, tutto sommato, non urti più di tanto neppure gli italiani. Per lo meno in questa fase iniziale, infatti, ancora non si è consumata nell’opinione pubblica l’idea di un Renzi visto come nettamente contrapposto alle burocrazie e ai suoi vertici.
Ciò che mi fa specie, invece, riguardo alla nuova lady-Fisco, è anzitutto il fatto di volere seguire pedissequamente le orme del predecessore Befera (fa’ molta attenzione, caro Renzi…). Ma, soprattutto, mi fa specie la sua convinzione, cieca e “a prescindere”, di far bene. Una convinzione blindata, spesso non verificata nei dettagli. Con tanto di paraocchi, dunque. E che finisce per funzionare da copertura rispetto al fatto che, viceversa, nella realtà vera, la struttura che è alle sue spalle – a causa di errori strategici di vertice aggravatisi proprio negli anni più recenti – continua a lavorare, suo malgrado, facendo male, molto male agli italiani. Per carità, non voglio parlare di malafede. Sono sicuro, anzi, che la neo-direttrice crede in quel che dice e che sia sinceramente convinta di far bene (benché questo particolare finisca purtroppo per giocare contro, nel senso che allontana e non aiuta a risolvere il problema).
Alla Leopolda la Orlandi ha esordito sbandierando in apertura, con sguardo severo, la maxi-cifra dell’evasione fiscale in Italia, che “cuba” 90 miliardi di imposte annue nascoste al Fisco, secondo la direttrice. Questo approccio, tutt’altro che inedito (ricordate l’analogo ritornello a cifra variabile recitato dal predecessore?), ci dà la prova che, purtroppo, anche con lei la gestione del Fisco finirà male.
Ciò anzitutto poiché, come si vedrà, tocca ad altre figure dello Stato e non certo al direttore dell’Agenzia, dar voce alla legittima indignazione che prova – di fronte a questa cifra enorme di evasione – chiunque abbia pagato per intero tutte le sue tasse. Avete mai sentito un capo di Polizia farsi vanto del proprio conclamato fallimento, ovvero della cifra record raggiunta dai furti avvenuti nella propria circoscrizione? O un preside di liceo che sfoggia, con puntuto risentimento, l’altissima percentuale di “asini” usciti dal proprio istituto? No, non è così. Non è vero che le colpe sono, sempre e comunque, a carico degli altri. La cifra dell’evasione, come anche l’entità record dei furti e la l’alta percentuale di “asini”, rappresenta, prima di tutto, la misura di quanto hai lavorato bene tu (“se” hai lavorato bene) nella struttura a ciò preposta e che guidi con i (tantissimi) soldi che la collettività ti affida.
Di fronte a un esito così fortemente negativo, pertanto, l’Agenzia delle Entrate è la prima responsabile, e, per questo, è da mettere sul banco di chi deve dar conto, piuttosto che nella posizione di chi punta il dito contro “altri colpevoli”. Troppo comodo per l’Agenzia, dopo vari lustri passati a spendere fior di risorse pubbliche, e a occupare in lungo e in largo il territorio della fiscalità in ogni spiffero (decidendo fino all’ultimo dettaglio tutte le asfissianti strategie di contrasto ancora in essere), chiamarsi fuori “a posteriori”. E posizionarsi su un piedistallo, auto-definendosi entità moralmente superiore, che si fa forte delle persistenti colpe altrui.
Buttarla in morale è dunque tecnicamente sbagliatissimo, e del tutto fuorviante. Dovrebbe essere vietato ai rappresentanti dell’Agenzia sotto pena di licenziamento in tronco. Perché alimenta una sorta di illusione ottica che porta a considerare automaticamente sacro e intoccabile (ma perché?) tutto ciò che è stato fatto dall’Agenzia. Questo, in contrapposizione al marcio, al deplorevole e al maleodorante, che proviene viceversa, tutto e soltanto, dal versante dei contribuenti. Questi ultimi, etichettati in massa come gli unici, veri colpevoli. Tanto, sono anonimi (e tali rimarranno per sempre!)…
Non solo. Ma come sopra accennato, la direttrice dell’Agenzia delle Entrate ha sì diritto di indignarsi per l’alto livello di evasione fiscale. Ma solamente a titolo personale. E in dosi non superiori a quanto è altresì consentito a qualsiasi altro cittadino “onesto”. In fondo, ella riveste un semplice ruolo di alto dirigente a pagamento, non certo il ruolo di titolare di carica politica elettiva, investita della rappresentanza di interessi collettivi. Questo per dire, in altre parole, che non tocca mica a lei fare la morale agli italiani (tanto più che, nella partita del contrasto all’evasione, lei è parte in causa. E, anzi, è grazie al livello diffuso dell’evasione, e alla necessità di contrastarla, che ella riceve dalla collettività il mandato di ridurla, percependo, proprio per questo, uno stipendio ad hoc).
Su questo tema, pertanto, alla Leopolda è Renzi che ha sbagliato. Toccava a lui dare voce finalmente a chi le tasse le paga fino all’ultimo centesimo, chiedendo conto all’Agenzia e facendosi pubblicamente spiegare dalla Orlandi come mai, nonostante la non trascurabile quota annua di 4,3 miliardi ad essa versati dalla collettività (per rimborsarne le spese), le cose continuano a non funzionare affatto, visto il tetto dei 90 miliardi annui di evasione, risultanti tuttora inagguantabili.
Tuttavia, benché non pungolata dal premier, e dunque lasciata libera di crogiolarsi nel brodo della autoreferenzialità propria, alla Orlandi è sfuggito di ammettere, anche a nome anche di chi l’ha preceduta, che “sull’evasione fiscale abbiamo fatto molto per più anni. Abbiamo cercato…, vari Governi hanno cercato in maniera alterna di dare segnali. Non è servito!…”.
Avete capito bene! Quanto fatto negli ultimi anni non è servito a nulla!
Ma come? Che vuol dire? Le tante misure anti-evasione varate negli ultimi anni sarebbero state inutili? L’affermazione è assai grave poiché stiamo parlando di misure aventi un impatto pesantissimo sui contribuenti. Misure tutte falsamente vendute – a suo tempo – come salvifiche, tutte in grado di garantire “la” soluzione al problema evasione fiscale di massa (ricordate le reiterate affermazioni di Befera su quanto si pensava fossero utili necessari: il redditometro, gli accertamenti esecutivi, lo spesometro, eccetera?). Trattasi di misure che hanno avuto – e hanno tuttora – un costo sociale altissimo, e che ancora oggi contribuiscono a tenere bloccata l’economia, comportando fra l’altro oneri amministrativi rilevantissimi a carico delle imprese. Solo per fare qualche esempio, la sopravvenuta inutilità candidamente svelata dalla direttrice Orlandi, riguarderebbe misure del tipo:
1. Redditometro delle cento spese,
2. Redditest con videata su Serpico, per impressionare il singolo contribuente,
3. Tracciabilità dei pagamenti ridotta a mille euro,
4. Riscossione immediata sulla base di accertamenti unilaterali e provvisori (accertamenti esecutivi),
5. Spesometro,
6. Mediazione tributaria,
7. Comunicazioni obbligatorie sui beni di terzi in godimento,
8. Setaccio dei movimenti bancari, trasmessi, nel cento per cento dei casi, all’Agenzia delle Entrate e da questa utilizzabili anche “a strascico”.
Di fronte a un’affermazione di fallimento radicale così tanto impegnativa, credo abbia senso chiedersi quali sono le ragioni per cui l’insieme di questi strumenti, così esageratamente invasivi, ha lasciato inalterata – parola della Orlandi – la quantità delle tasse evase.
La direttrice non lo dice apertamente, ma il sottinteso certo e scontato – che oramai non serve manco più ribadire – è che le colpe sono sempre e solo dei contribuenti-evasori.
A questo riguardo a me viene spontaneo insinuare un piccolo dubbio: di fronte alla constatata inutilità, oggi ufficializzata, dei tanti “segnali” (così la Orlandi ha denominato le misure di contrasto all’evasione assunte di recente dai vari Governi) può essere che tale fallimento sia dovuto al fatto che queste misure erano completamente sbagliate in partenza? E dunque che non andavano varate affatto in quanto nocive e controproducenti?
Io personalmente l’ho sempre pensata così, con riferimento alle Finanziarie varate negli ultimi lustri. E a forza di non parlarne, il problema si ripresenta puntualmente ogni anno, con dimensioni via via sempre più gravi. Tanto che, ancora oggi, per l’ennesima volta, tocca constatare che pure le misure anti-evasione in arrivo, quelle di cui al ddl di stabilità per il 2015, sono sbagliate, dannose per l’erario e smaccatamente favorevoli agli evasori. Sembrano misure pensate da marziani, da chi non sa quel che dice e non capisce quel che fa (vedi qui).