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Pier Luigi Bersani e i suoi squadroni conservatori

Pier Luigi Bersani torna all’antica contrapposizione globale contro tutto ciò che disturba una veterosinistra che considera “cosa nostra”: il Pd. L’antico capo (post) comunista è imbufalito con Renzi che, con la Leopolda, gli ha scippato il partito; ma non conosce la benché minima autocritica, visto che nel febbraio 2013 le elezioni generali le ha perse lui, assieme all’altro grande sconfitto Mario Monti. Il quale era almeno giustificato perché dilettante allo sbaraglio, come i troppi banchieri che, ultimamente, si autorappresentano come possibili salvatori da una recessione che non accenna a cambiare verso e, anzi, progredisce sino a fare risultare l’Italia dietro Cipro, quanto a capacità di recupero.

Bersani si ribella apertamente al rottamatore nei giorni in cui il mondo celebra i venticinque anni della caduta del Muro di Berlino, che segnò il fallimento storico del comunismo. Le sue premesse, i suoi propositi, i suoi suoni di guerra risentono di una irriducibile cultura soviettista: non ammette dissensi; fa del vittimismo sentendosi accerchiato (come diceva Stalin) dall’espansionismo capitalistico; da buon burocrate (post) comunista, vuole la chiusura della voce libera di Mediaset, ritenendola un’arma propulsiva del patto del Nazareno (ma guarda cosa va a pensare quel progressista che, evidentemente, ricerca una riperdita nelle elezioni presidenziali, non essendogli bastata quella andatasi a cercare coi suoi tentativi di inciuci con Grillo e i suoi avanguardisti dell’antipolitica). Si può capire il desiderio di Bersani di non lasciare a Landini la bandiera del sinistrismo ultrà; ma nessuno (neppure D’Alema) può illudersi di rifare il vecchio Pd per fare rientrare il dissenso delle varie minoranze di quel partito che i Cobas deridono ormai quotidianamente nelle piazze. Creando difficoltà a sinistre vere, a sinistre fasulle e a borghesi che hanno creduto e continuano a credere nell’ideologismo protestatario come ad un talismano che salverebbe l’Italia dal disastro totale.

Non è tuttavia l’uomo Bersani che dà pensiero a Renzi; è il mondo composito dei nostalgici della guerra civile permanente che preoccupa per il suo agitato correre in soccorso di chi si propone di smacchiare il giaguaro fiorentino. Renzi, invece, deve guardarsi non solo dai parlamentari prescelti da Bersani ed eletti grazie al conseguito premio di maggioranza (diventato strumento d’instabilità, cioè il contrario della sua finalità strutturale), bensì dai politicamente moribondi di Palazzo Madama: vale a dire da un partito trasversale che attraversa tutto lo schieramento dei partiti e degli eletti di una camera Alta che s’è ulteriormente distinta per le sue meschine bassezze d’intenzioni e di riluttanze conservatrici.

Se col patto del Nazareno Renzi sembra potersi assicurare anche un relativamente tranquillo passaggio dal Quirinale di Napolitano ad un presidente più equilibrato e votato in maniera condivisa dai due maggiori partiti centrali della geografia politica nazionale, con l’alleanza corsara di Bersani e grillini, che rianima il ben più condizionante squadrone dei politicamente moribondi di Palazzo Madama, la sola idea di mandare allo sbaraglio nomi per tutte le stagioni degli ultimi trent’anni (leggesi 30 e non 20), dovremmo ammettere che il vizio italico (e della sinistra storica), cioè il trasformismo, continua ad essere la stella polare di un ceto politico abilissimo nelle trame e del tutto inadatto a fare entrare l’Italia nel mondo delle grandi democrazie bipolari e pur sempre pluraliste e libere.

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