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Quel pasticciaccio brutto della “Google tax”

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E “Google tax” fu. Il governo spagnolo, con 172 voti a favore, 144 contrari e 3 astensioni ha dato il via libera alla modifica della legge sulla proprietà intellettuale introducendo una imposta sugli aggregatori di contenuti. In pratica, da gennaio 2015 la Spagna sarà il primo Paese in Europa ad applicare una normativa che impone una tassa sui link.

La notizia è corsa velocemente dall’altra parte dell’Oceano, addensando nuvole minacciose nei cieli di Mountain View. Chi dovrà pagare dazio per riutilizzare contenuti di matrice iberica, infatti, sarà principalmente Google che mette a disposizione degli utenti il noto aggregatore di notizie Google News. Ma la tassa sui contenuti riguarderà anche altri servizi simili offerti, ad esempio, da Yahoo.

Il compenso verrà riscosso per il diritto di citazione o di rassegna, anche se limitato a frammenti «non significativi di informazione, opinione o intrattenimento». Chi violerà la legge, facilitando l’accesso specifico e di massa a contenuti offerti illecitamente, sarà soggetto a sanzioni fino a 600mila euro.

L’approvazione della “Google tax” ha suscitato, come era prevedibile, feroci proteste da parte di BigG – convinto che «servizi come Google News aiutino gli editori a portare traffico ai propri siti web» -, di molti editori, media e aggregatori di link nonché da parte di associazioni di autori e internauti. Non solo. Ben 80mila persone hanno firmato una petizione per chiedere il ritiro della legge, che considerano «un regalo del governo ai grandi quotidiani». Nulla però ha fermato il parlamento spagnolo, che in oltre un anno di lavori, si è sempre mostrato deciso a percorrere la via della tassazione, pensando sia l’unico rimedio per far fronte a problemi quali la pirateria online.

Il dibattito sulla tassa – vero spauracchio per i sostenitori della democrazia della Rete – è accesissimo in queste ore. Del resto la “Google tax”, così come si configura, appare anacronistica e alimentata da una illogica matrice di stampo proibizionista. In un contesto in cui l’informazione online viaggia e si evolve grazie allo “sharing” e al “linking”, infatti, che senso ha portare alle estreme conseguenze la tutela del diritto d’autore imponendo una compensazione obbligatoria anche per quei produttori di contenuti che, di fatto, non la vogliono?

Ancora, che senso ha danneggiare utenti e lettori negandogli la possibilità di accedere a un flusso continuo di informazioni o di godere del diritto alla copia privata? E poi, perché mettere a repentaglio le opere in creative Commons, che solo in Spagna sarebbero all’incirca 10 milioni? Il tutto rischiando di contravvenire alla normativa comunitaria in tema di informazione online, motivo per cui il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi aveva a suo tempo bocciato la proposta presentata da Francesco Boccia.

La questione appare ancora più perversa quando sono gli stessi media spagnoli ad ammettere che se Google dovesse chiudere la sua divisione News in Spagna – come già minacciato – si verificherebbe una perdita di traffico tra il 10 e il 30%. Perché c’è una verità ormai inconfutabile: il sistema dell’informazione globale è cambiato radicalmente con l’avvento di Internet e con esso le abitudini di fruizione delle notizie. Qualunque testata piccola, media o grande che sia, deve rispondere a delle regole differenti, quelle dettate dalla Rete, e suo malgrado non può più rinunciare al contributo apportato da Google & co., casse di risonanza potentissime per le notizie e vetrine straordinarie per editori e giornali.

Cosa ci dimostra, dunque, il caso spagnolo? Che molte realtà rifiutano ostinatamente di adeguarsi a cambiamenti di portata epocale preferendo, piuttosto, innalzare barricate attorno al loro piccolo orticello e usare come unica arma di difesa pesanti tassazioni.

In barba alle nuove esigenze del mercato e degli utenti. E a quel concetto di “intelligenza connettiva” (Derrick de Kerckhove docet) che sta svezzando intere generazioni di nativi digitali.

di Alma Pantaleo

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