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Registro delle Imprese e Business Intelligence: un nuovo (e necessario) Bene Pubblico

Un esempio intelligente di lettura del dato. Nella mappa della Campagna di Russia del 1812 di Napoleone disegnata da Charles Joseph Minard attorno al 1850 vengono illustrate in maniera dinamica le perdite dell’esercito francese: la mappa rappresenta – giorno dopo giorno – l’assottigliamento dell’esercito francese e correlando la ritirata con l’andamento delle temperature. La mappa utilizza anche le coordinate geografiche, evidenziando anche le parti dell’esercito che si sono prima allontanate e poi ricongiunte all’armata principale. Qui la grafica “sfida la penna dello storico nella sua brutale eloquenza”.

Il dibattito odierno attorno al Registro delle imprese si sta svolgendo nel tipico stile italiano: più centrato sulla proprietà e sui costi di gestione (da ridurre nello stile spending review), che non sulle sue (potenziali) funzionalità e utilizzabilità.

È doppiamente un peccato. Innanzitutto perché il tema è così rilevante per il futuro delle capacità competitive del Sistema Paese  che la sua “riduzione” a costi amministrativi da comprimere e a scelta dell’ubicazione organizzativa migliore, non gli rende giustizia. In secondo luogo perché il mondo che oggi se ne occupa è molto attivo ed è stato distrattamente sfiduciato dalla politica.

Ho avuto modo di toccare con mano questo aspetto partecipando alle due giornate – a Ravenna – della convention (la numero 18) dei “Conservatori del registro delle imprese”. Non solo la competenza è molta e articolata (dai temi giuridici a quelli economici a quelli digitali), ma c’è soprattutto molta passione, orgoglio di ruolo, e anche una positiva diversità di posizioni su alcune partite specifiche. Detto in altri termini, un ambiente vivo e dinamico che non solo si preoccupa di come migliorare il presente, ma che soprattutto si interroga – sia filosoficamente che progettualmente – su come affrontare al meglio il futuro.

Ad ogni modo il fatto che il tema del Registro delle imprese stia occupando lo spazio della politica nazionale e dei quotidiani generalisti va colto come una grande opportunità: il poter affrontare  di petto la retorica degli open data e soprattutto il poter riflettere – nell’era del digitale e della società dell’informazione – sul ruolo dei dati, e in particolare su alcune tipologie di dati.

Il dato non è oramai più un aspetto ancillare ma tende – nell’era della conoscenza – a diventare un fattore produttivo competitivo. Oltretutto il suo utilizzo è fortemente condizionato dalle nuove tecnologie e strumenti digitali. Content curation, content enrichment, volksonomy, semantic web, infografiche, cookies, trusted search (Google), hoax (Wikipedia) sono tutti elementi (strumenti, approcci, metodi, …) digitali relativamente recenti che stanno condizionando la strutturazione e accesso all’infosfera digitale, e cioè il mondo delle informazioni digitalizzate.

Ma la sfida del Registro delle Imprese non è solo una sfida tecnica: è anche e soprattutto una sfida culturale. Deve essere non solo strumento di adempimento (per stare dentro le regole del gioco economico) ma anche – e per me soprattutto – diventare strumento di competitività (sia delle imprese che dei territori), trasformandosi in archivio “arricchito” delle imprese italiane. E seguendo due direzioni specifiche:

·      informazioni per comprendere il mercato, le sue dinamiche e identificare i segni che ne prefigurano il futuro;

·      informazioni per supportare i processi di infrastrutturazione.

Questo ritengo debba a regime essere il “nuovo” utilizzo del dato, e non solo quindi l’utilizzo operativo per consentire l’identificazione “certa” dell’azienda (ad esempio grazie al suo indirizzo “esatto”), la trasparenza antimafia, la conoscenza dei veri proprietari dell’impresa, lo stato dei protesti, ….

La tipologia di dati per supportare lo sviluppo economico – una forma di open & big data – non nasce dalla semplice aggregazione (e anonimizzazione) dei dati operativi disponibili (come ad esempio quelli contenuti nel Registro delle imprese), ma è un dato arricchito che aggiunge alle informazioni operative ulteriori informazioni provenienti da fonti diverse: è dunque un esempio concreto di quella attività – nata nel mondo del web 2.0 – chiamata content enrichment.

Un esempio efficace viene dall’iniziativa di Data Journalism guidata da Guido Romeo su Wired. Parlo dell’analisi sul “Rischio sismico delle scuole”, costruita partendo da dati “pubblici” (open) presenti sulla Rete ma sparpagliati (i dati sulle spese di manutenzione di ciascun istituto scolastico, la ubicazione geografica degli istituti, l’identificazione e georeferenziazione delle aree sismiche italiane, …). Il risultato – una mappa interattiva degli edifici scolastici del Belpaese a rischio sismico con l’identificazione dei casi più critici su cui è necessario intervenire –  ha modificato le politiche del Governo in questo settore.

È utilizzando questo tipo di strumenti e metodi che il Registro delle imprese può ritornare ad essere non solo l’attore principale, ma la pietra angolare su cui costruire la piattaforma italiana della business intelligence. Solo in questo modo può diventare la linfa vitale per la competitività delle imprese italiane.

Ora, per ottenere questi benefici non basta avere un Registro delle imprese digitalizzato; vanno lanciate due altre iniziative:

 

– va creata una cultura del dato presso le amministrazioni territoriali e presso le imprese – soprattutto quelle piccole, intervenendo in maniera massiccia con la formazione;

– vanno resi disponibili strumenti semplificati e mirati per la business intelligence adatti a questi contesti – poco abituati a consultare informazioni complesse. Anche nelle grandi aziende – dove c’è l’abitudine al dato – si sta diffondendo la mania dei tableau de bord (dei cruscotti) con centinaia di numeri – spesso totalmente inutili. Oggi – nell’era dell’informazione eccessiva – non servono tanti numeri ma quelli giusti; inoltre è inutile guardare continuamente dati che ci dicono poco più di quanto sappiamo; è invece più importante essere avvertiti tempestivamente dalle variazioni inattese, degli scostamenti dal budget, dall’anomalia piuttosto che verificare continuamente e ossessivamente che si è in linea con quanto previsto.

A ciò vanno unite due ulteriori attività – che qui formulo sotto forma di proposta – per renderle più esplicite:

separare la componente pubblica del dato economico (il cuore del Registro delle imprese) – la cui raccolta e gestione è pagata dalle imprese con la tassa annuale – da quella commerciale che ha generato un mercato – seppur non particolarmente florido e dinamico – di informazioni. La componente pubblica – che va gestita a livello aggregato – deve diventare un bene pubblico ed essere la base sui cui costruire la business intelligence tanto necessaria per riorientare – nella direzione giusta – la crescita del Paese;

costruire a livello italiano una architettura dei dati (con indicazione delle fonti attendibili, codici per l’identificazione univoca del dato – ad es. la P.IVA nel caso delle imprese – e regole suggerimenti per la correlazione del dato) che consenta di arricchire con facilità l’informazione di base presente nel registro delle imprese.

Ciascuna di queste affermazioni richiede – naturalmente – approfondimenti e dettagli (e non è questa la sede) ma – nel loro insieme – indicano una strada per costruire una nuova infrastruttura competitiva: la piattaforma italiana per la business intelligence. I dati ci sono, la Rete ne è piena; come ha osservato Bruce Sterling nel suo Tomorrow now «Internet trasporta semplicemente dei dati, vagoni ferroviari di dati, dati a tonnellate. Internet è sapere elettronicamente sovraccarico, decentralizzato, disorganizzato, multiculturale e fuori controllo». A noi il compito di selezionarli, filtrarli, correlarli, aggregarli in unità di senso.

Infatti la conoscenza è sempre più importante, ma non si tratta più solo di “Informazione e potere”: vi sono mille trappole sulla Rete che richiedono una conoscenza approfondita del mezzo; il dato sulla Rete non  può più essere semplicemente raccolto. Prendiamo fra i tanti il caso di Wikipedia. È utile ricordare che questa enciclopedia – quando pubblica un lemma – non usa il criterio della verità (non entra cioè nel merito, a parte i casi eclatanti e auto-evidenti) quanto quello della verificabilità della fonte. Interessante a questo proposito l’articolo  di Nishant Shah – Guerrieri del sapere – pubblicato il 16 gennaio 2011 su Il Sole24 Ore domenicale.  E poi non scordiamoci che gli hoax sono sempre in agguato, visto che serve del tempo ai “redattori” di Wikipedia per leggere e controllare i nuovi contributi … come ha dimostrato il 15 gennaio 2014 Daniele Virgillito su Wired.it (“Come ho fregato tg, politici e giornali con qualche riga su Wikipedia”).

Inoltre sta crescendo il problema dello sporto digitale. Come ha osservato Ezio Manzini, oggi – grazie alla diffusione dei media digitali – «viviamo in mezzo ad una massa crescente di rifiuti semiotici, cioè di messaggi, testi e codici degradati e de-contestualizzati di cui non possiamo liberarci». La nostra società più che dell’informazione non rischia di diventare la società del rumore?

E infine è fondamentale acquisire competenze nell’uso di Google. Nel tempo, i suoi ingegneri hanno continuato a mettere a punto l’algoritmo utilizzato per classificare il contenuto delle pagine web, e dare risposte sempre più attinenti alle domande fatte dai suoi utenti. All’inizio la parte del leone la faceva il PageRank (un indice dell’affidabilità del sito, funzione del numero di link in entrata), ma nei tempi recenti gli algoritmi utilizzati da Google si sono progressivamente moltiplicati e stratificati, includendo ad esempio il Trust Rank (valutazione da parte di operatori umani dell’affidabilità dei siti), l’uso di tecnologie semantiche e la profilazione degli utenti – con l’obiettivo dichiarato sia di migliorare l’appeal pubblicitario del sito sia di dare all’utente “quel che sta cercando”, con risultati personalizzati.

La crescita delle informazioni disponibili non vuol dire dunque necessariamente maggiore qualità informativa, anzi … Il grande poeta Coleridge – nel suo La ballata del vecchio marinaio – descrive perfettamente la situazione attuale: “Acqua, acqua dovunque e neppure una goccia da bere”.

Per questo motivo Hal Varian – professore di information sciences, business, and economics presso l’Università di  Berkeley e Chief Economist di Google – ha affermato, in una intervista fatta da James Manyika di McKinsey (“Hal Varian on how the Web challenges managers”), che la figura chiave del futuro sarà “l’uomo dei dati” – il data scientist: “I keep saying the sexy job in the next ten years will be statisticians … The ability to take data – to be able to understand it, to process it, to extract value from it, to visualize it, to communicate it – that’s going to be a hugely important skill”.

Questi esperti di dati non saranno solo abili nel trovare le informazioni giuste quando nel momento in cui saranno richieste. Saranno soprattutto abilissimi organizzatori delle informazioni più interessanti che avranno trovato e archiviato durante il loro incessante scandaglio delle Rete. Il vero lavoro sarà dunque proattivo e il loro strumento più importante, oltre alle abilità di navigazione sopra ricordate , sarà proprio il loro archivio personale – le loro “topiche digitali” volendo richiamare Aristotele – che gli permetteranno di fornire sempre – non solo accuratamente ma anche tempestivamente – informazioni fresche e aggiornate, argomenti pertinenti, credenze condivise e ben raccontate e soprattutto correlazioni inattese, la tanto evocata e preziosa serendipity.

Dovremmo quindi – nel futuro – considerare il dato come una delle nuove infrastrutture della società post-industriale. Non a caso si parla di società dell’informazione e per questo il Registro delle imprese gioca in ruolo centrale, da pietra angolare.

Quali sono, allora, i benefici di una Business Intelligence sistematica ? Tra i tanti, è utile ricordare la possibilità di cogliere gli indizi di un mercato che cambia, le sue direzioni, le sue forme. In secondo luogo consente di aiutare soprattutto le startup (e le aziende innovative) a cogliere e perimetrare i nuovi bisogni  del mercato, quelli non ancora chiaramente esplicitati (e quindi soddisfatti). Inoltre consente di pianificare le infrastrutture di un territorio in maniera corretta, focalizzata, non ridondante e proattiva. Infine consente di trovare con facilità – a distanza di click specificità e complementarietà fra gli operatori economici e quindi supportare la costruzione di aggregati di imprese o processi collettivi.

Per questo motivo il Registro delle imprese deve rimanere vicino ai territori e alle imprese che non  sono solo i generatori delle sue informazioni ma anche i principali utilizzatori e soprattutto coloro che potranno trasformarlo in una autentica piattaforma di business intelligence.


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