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Non si sa più a quale santo votarsi

La democrazia dell’alternanza non è una formula teorica che s’invochi per una particolare sensibilità culturale che premi la politologia sulla politica in declino, specie quando quest’ultima – com’è nel caso italiano – sia sbrindellata, confusionaria, insistita sulla preferenze di genere o sull’avanguardismo degli ultimi arrivati.

La democrazia dell’alternanza è (meglio, dovrebbe essere) la regola numero uno per garantire il principio democratico che riconosce vincitore chi abbia ottenuto la metà più uno dei voti in una consultazione politica, rispetto ad altra forza (o alleanza) che si sia battuta mirando al medesimo risultato attraverso libere elezioni e in uno Stato in cui vi sia stabilità istituzionale in certezza di democrazia.

Va da sé che, nelle condizioni in cui l’intero schieramento politico italiano si trova in questa fase – con uno sgretolamento ed un mutamento interno dei poli così come emersero dal voto del febbraio 2013; e con minipartiti estranei a quei poli ma non per questo non partecipi a ipotesi di aggregazioni inedite e al variare dei comportamenti nel lavoro parlamentare -, una alternanza democratica non è neppure ipotizzabile. Se ne parla poco proprio perché – indipendentemente dagli strumenti elettorali adottabili – la pluralità delle formazioni in campo, la loro incomponibilità volontaria o oggettiva, lo sfranamento della coesione interna a ciascuna formazione, le distanze crescenti fra partiti e blocchi sociali e ideali di riferimento e l’eccesso di aspiranti ad un leaderismo imposto e non espressivo di correnti d’opinione che vi si riconoscano, tutto ciò impedisce agli italiani, nella loro maggioranza, di sentirsi partecipi di una democrazia corretta: netta, priva di fumoserie, mirata al confronto fra poli certi (e non ballerini) e riconoscibili come diversi; con progetti di Stato e di società per i quali valga la pena misurarsi democraticamente, e non disertando le urne per la persistenza di un sistema politico malato, avariato, comunque giudicato inaccettabile e disinteressato ai problemi della gente.

Quando un premier è contestato con insistenza dal blocco sociale che dovrebbe caratterizzarlo e alimentarlo; quando l’opposizione a siffatto premier proviene anzitutto dalla sinistra che elettoralmente lo ha espresso, abbastanza da un polo sistematicamente sordo alla dialettica parlamentare e da una destra incapace di andare oltre la protesta etnicista o la nostalgia, mentre un centro moderato e popolare continua a piangersi addosso e riduce l’intero complesso delle sue iniziative ad aspirare a succedere a Berlusconi (di cui sono peraltro, e a vario titolo, figlie fedeli o degeneri), la politica dell’alternanza non è più neppure un miraggio: è qualcosa di inaccertabile e persino di incomprensibile, una regola, più che disattesa, estremamente astratta.

La concatenazione di tali deficienze strutturali sempre più numerose ha condotto anzitutto alla impraticabilità di un terzopolismo rappresentativo di realtà sociali differenziate ma convergenti nella difesa di un sistema istituzionale postbellico e imperfetto. Inoltre, ha bloccato alternative di sistemi costituzionali, giungendo al parossismo di votazioni parlamentari per la scelta di componenti residuali di organi costituzionali della valenza della Consulta e del Csm, mentre il premier giunge a parlare di «complotto» contro di lui. Di fatto si continua a impedire il solo accenno ad un bipartitismo atipico, che pure è esistito in Italia per l’intera Prima Repubblica e vigendo il proporzionalismo. La politica, intesa come disaggregazione permanente e sistematica, esalta l’assemblearismo anarcoide e rende vane persino le maggioranze reggentesi su alti premi di maggioranza o su voti di senatori a vita che dovrebbero, invece, essere apportatori neutrali di saggezza.

Si può, in tutta onestà, ritenere che si possa continuare a procedere in una condizione di disordine, di incoerenze, di personalismi che bloccano a lungo anche il naturale ricambio di un ministro e di sceglierlo per ragioni estetiche e non per capacità ed esperienza? Come si può pensare di reggere un sistema democratico sull’annuncite di un uomo solo al comando in una legislatura nata male e proseguita peggio? Può davvero Renzi ritenere che il percorso del suo governo sia agevole perché fondato sui voti di fiducia che impediscono i chiarimenti nel suo partito e con gli alleati ministeriali, i quali si danno voce solo per giustificare la loro presenza in un esecutivo di obbedienti al capo giovane, piacione ma cinico (come precisa Rutelli, un suo maestro), non in grado di realizzare i suoi progetti innovatori se non col sostegno palese del suo principale antagonista, a sua volta ancora bloccato nelle trame di una legge retroattiva da Paese subcoloniale?

Così stando le cose, ogni giorno ha la sua pena parlamentare. Ma ogni giorno che trascorre aumenta il bisogno assoluto di mutare andazzo e una abitudinarietà improduttiva, lontana dai problemi concreti di un popolo che non sa più a quale santo votarsi.

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