Il TTIP, Trattato Transatlantico sul commercio e gli investimenti (o zona di libero scambio tra Unione Europea e Usa), è da tempo allo studio della Commissione Europea e degli USA. A cosa servirebbe? A eliminare o ridurre le barriere e le formalità doganali; alla progressiva riduzione dei dazi; alla definizione di regole comuni sugli standard e sulle qualità dei prodotti; ma anche sui controlli sanitari e fitosanitari; alla unificazione delle certificazioni di sicurezza delle macchine; e così via.
La guerra alle dogane e alle frontiere è una vecchia storia e ambizione di tutte le politiche liberali del mondo. Ma prendere delle scorciatoie per arrivare all’obiettivo è pericoloso, molto pericoloso. Ne sappiamo qualcosa in Europa con l’introduzione dell’euro e con la sua successiva gestione.
LE SCELTE POLITICHE
Innanzitutto bisogna stare attenti a non far calare dall’alto di tecnocrazie, apparentemente asettiche, scelte economiche e commerciali, che poi andranno a incidere anche profondamente nella vita dei popoli. Sono scelte politiche di cui rispondere agli elettorati, dopo ampia informazione e discussione. Già governi e Stati dovranno ratificare un accordo di libero scambio stabilito tra la Commissione Europea e il Canada, che dovrebbe servire come apripista per quello ben più importante tra Europa e Nord America (“Questo accordo dà agli esportatori canadesi un accesso privilegiato a 500 milioni di consumatori dell’Unione Europea e permetterà di reinventare la nostra relazione commerciale con il più grande mercato del mondo”, ha detto il premier canadese Stephen Harper; già!).
DA DOVE SI PARTE
I dati di partenza del TTIP sono semplici: l’UE esporta verso gli USA circa 290 miliardi di Euro di prodotti e ne importa circa 206, all’anno. Da queste due cifre sembrerebbe che, se la bilancia commerciale dovesse mirare teoricamente al pareggio, siano gli USA ad avere interesse a esportare più in Europa e quindi a modificare gli accordi esistenti. L’Italia esporta verso gli USA circa 27 miliardi di euro di merci e ne importa circa 13. Anche in questo caso la bilancia commerciale è a favore dell’Italia e quindi la modifica della situazione dovrebbe interessare più gli americani che gli italiani. I dati sono di Confindustria. La tesi che gli americani sono più interessati di europei e italiani a modificare le regole del gioco è semplicistica? Ci forniscano gli elementi concreti per dimostrarlo, prima di continuare a spingere per la conclusione del Trattato.
LE REGOLE AMERICANE
Al momento sappiamo che non è facile, se non impossibile, modificare le regole protezionistiche americane; un esempio? Il WTO, World Trade Organization, ha concordato con i propri associati, tra cui gli USA, una “liberalizzazione” nella gestione degli appalti pubblici; “13 Stati americani non applicano questo accordo; e 37 lo applicano in maniera disomogenea” (fonte: Confindustria). A complicare ulteriormente la questione c’è il fatto che molti prodotti destinati al libero scambio ricercato, sono manufatti multinazionali, con etichetta finale europea o americana; e di questa complicazione possono essere vittime più gli italiani, che puntano all’eccellenza del made in Italy, rispetto ai prodotti più comuni europei e americani, che possono avere fabbricazioni le più diverse e nei Paesi più diversi.
IL VALORE EURO-DOLLARO
Un’ultima minuscola considerazione, che dai documenti ufficiali in materia nessuno tratta; la questione del valore dell’euro sul dollaro e della loro rispettiva gestione. L’’euro, partito in sostanziale parità con il dollaro, di fatto si è rivalutato ad oggi del 30%, circa; cioè i nostri prodotti sono per gli americani sempre più cari e quindi meno competitivi. E qui tutto si complica; il surplus della bilancia commerciale tedesca, per esempio, può reggere valori di scambio più alti rispetto alle esigenze della fragile bilancia commerciale italiana: e quindi il valore dell’euro sul dollaro è vissuto in maniera profondamente diversa in Germania, da un lato, e in Italia o in Europa del Sud, dall’altro; tanto per dare cifre, il cambio euro-dollaro forse potrebbe superare la cifra di 1.50 per l’interesse tedesco, mentre dovrebbe stare sotto a 1.10 per gli interessi italiani, francesi, spagnoli ecc. E infine bisogna anche considerare la gestione delle rispettive monete, fondamentale nella ipotesi di un’area di libero scambio; negli USA la FED, Banca centrale, in 24 ore decide le politiche di inflazione o deflazione; in Europa alla BCE, Iddio volendo, per misure analoghe ci vogliono non meno di 6 mesi.
LIBERALISMO IN UN SISTEMA NON LIBERALE
Sembra, in sostanza, che per questo Trattato abbiamo tutte le voglie del liberalismo più perfetto e tutti gli strumenti di un sistema affatto liberale, intriso di storie, culture ed economie, antiche, di frontiere in sostanza tuttora esistenti e spesso parcellizzate in Europa; e di un sistema americano brutalmente libero, ma con mille regole (350 linee tariffarie doganali, che interessano i prodotti italiani, per esempio) confederali e altrettante statali. Ma non sarebbe più semplice e produttivo continuare sulla strade dei confronti diretti con gli USA, per migliorare l’interscambio, con la eliminazione di tutto il “superfluo”, burocratico o protezionistico, possibile? Leggenda vuole che nel passato gli americani non volevano il prosciutto italiano, per problemi sanitari; gli italiani risposero che anche le scarpe Timberland, all’epoca di gran moda, ponevano problemi sanitari, cioè ortopedici; naturalmente ci fu accordo; prosciutto e Timberland entrarono così nei rispettivi Paesi.
Il commercio è fatto di interessi; non di ideali (a meno che dietro agli ideali non ci siano interessi…).