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Quirinale e dintorni, che cosa manda a dire Spadolini…

Ho visto un angioletto, anzi un angiolone, corrucciato su una nuvoletta che lo conteneva a stento per le sue inusuali dimensioni. Da impenitente come sono rimasto anche quassù, l’ho avvicinato per chiedergli chi fosse stato e che cosa avesse fatto ai vecchi tempi laggiù. Ma soprattutto perché fosse così triste, nonostante quelle ali quasi di grazia sporgenti dietro la sua figura.

Seppure di malavoglia, specie dopo avermi chiesto chi piuttosto fossi stato io laggiù, e avere quindi capito di avere a che fare con un brigante, seppure a fin di bene e perciò riabilitato da un Papa allora in carne e ossa, mi ha raccontato di essere stato laggiù Giovanni Spadolini: storico, scrittore, giornalista, professore, infine statista. E toscano come fui anch’io.

Statista in che senso? Gli ho chiesto, giusto per sentire come me lo raccontasse lui. Che, gonfiandosi ancora di più, mi ha detto di essere stato il primo capo di governo non democristiano nella lunga, prima parte della storia della Repubblica italiana dominata dai democristiani dopo la loro strepitosa vittoria nelle elezioni del 1948. E poco mancò nel 1992 che dalla Presidenza del Senato, dove la Dc lo aveva voluto insediare per i meriti acquisiti come suo fedele e leale alleato di governo, egli salisse sul colle più alto di Roma: al Quirinale, dove i presidenti della Repubblica avevano preso il posto dei Re e, prima ancora, dei Papi.

Questa volta senza che neppure glielo chiedessi, l’angiolone mi ha raccontato che a fargli mancare l’obbiettivo del Quirinale furono i comunisti, che all’ultimo momento gli preferirono il democristiano Oscar Luigi Scalfaro: un altro che quassù si vede ogni tanto triste e sofferente per misteriose ragioni. Che prima o dopo mi deciderò a chiedergli.

Te lo dovevi aspettare, ho detto a questo punto all’angiolone mostrandogli di sapere di lui molto più di quanto egli forse non credesse. Gli ho ricordato, in particolare, tutti quegli articoli che da direttore del Corriere della Sera aveva scritto o ispirato contro la cosiddetta Repubblica conciliare, che lui temeva dietro l’ipotesi di un accordo fra democristiani e comunisti, a dispetto della loro contrapposizione elettorale. Ma quella – mi ha subito fermato – era un cosa superata, completamente dimenticata nel 1992, quando lui poteva diventare presidente della Repubblica. L’intesa fra democristiani e comunisti era stata raggiunta e sperimentata con il consenso suo e del suo partito, quello repubblicano, fra il 1976 e il 1979. Lui era diventato fra gli interlocutori addirittura privilegiati dei comunisti, più ancora di quanto non fosse stato prima Ugo La Malfa, che su consiglio del suo amico e collega giornalista Indro Montanelli lo aveva portato in politica, dopo che era stato malamente e immeritatamente allontanato dalla direzione del Corriere della Sera.

E allora perché mai i comunisti in quel maledetto anno non ti vollero aiutare con i loro voti a salire al Quirinale preferendoti Scalfaro? Gli ho chiesto tornando a fingere di non sapere e di non capire. E lui, di botto, mi ha risposto che a loro, ai comunisti, cambiati di nome dopo il crollo del muro di Berlino ma non di fatto, interessava di più in quel momento allontanare Scalfaro dalla Presidenza della Camera, appena acquisita dopo le elezioni politiche, per insediare al suo posto a Montecitorio un compagno: Giorgio Napolitano. Che infatti vi riuscì, e per niente suo malgrado, nonostante vada ora raccontando laggiù, ricordandolo nel ventesimo anniversario della morte, che in cuor suo avrebbe preferito votare per lui al Quirinale, proponendolo addirittura al suo partito in una riunione della direzione.

Tu ci credi, da furbo brigante che fosti?, mi ha chiesto poco angelicamente l’angiolone. Perché – gli ho risposto – non dovrei credergli, visto che voi siete poi stati così buoni amici, gestendo di comune accordo come presidenti delle Camere, tu al Senato e lui alla Camera, quella breve ma drammatica legislatura seguita alle elezioni, affollata di parlamentari e ministri finiti sotto inchiesta giudiziaria per storie di tangenti?

Non glielo avessi mai detto. L’angiolone ha scosso un po’ l’ala sinistra, come per rimettersi in equilibrio, e mi ha detto che, se questa è l’impressione su quegli anni ricavata quassù, e condivisa anche da molti laggiù, abbiamo commesso un grosso errore. Lui e Napolitano – mi ha spiegato – non furono per niente d’accordo nel gestire o solo nell’assistere alla resa della politica ai tribunali. Lui, l’angiolone, era convinto che si dovesse resistere e tenere in piedi la legislatura il più a lungo possibile, proprio perché la politica potesse cercare di rigenerarsi da sola e non farsi liquidare sbrigativamente dai magistrati. L’altro invece era un po’ rassegnato, per quanto infastidito da certi metodi dei magistrati, e un po’ convinto che si dovesse aiutare il suo partito a trarre il maggiore vantaggio possibile dalla liquidazione giudiziaria dei vecchi avversari o concorrenti. E quando Scalfaro decise di sciogliere anticipatamente le Camere elette meno di due anni prima, lui – l’angiolone – cercò di dissuaderlo, mentre l’altro lo incoraggiò, sicuro che dalle urne i suoi compagni sarebbero usciti vittoriosi con la loro allegra macchina da guerra su quel cavaliere lombardo improvvisatosi politico, ma destinato invece a stravincere.

Scusa, ma Scalfaro da vecchio democristiano non proprio di sinistra – gli ho chiesto – che interesse aveva a cercare di favorire i comunisti, o come diavolo si chiamavano allora? E lui, sbattendo un po’ questa volta l’altra ala, mi ha laconicamente risposto: per grazia ricevuta. La grazia del Quirinale, evidentemente.

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