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Perché gli americani hanno sfiduciato Obama

È stato tutto, fuori che una sorpresa. Si può dire anzi che i veri vincitori delle «elezioni di medio termine» negli Stati Uniti sono stati gli istituti di sondaggio; come se gli elettori avessero loro ubbidito. La realtà, naturalmente, è un’altra: i sondaggisti hanno fatto bene il loro mestiere, ma soprattutto perché i cittadini americani interpellati sulle loro intenzioni alle urne hanno parlato in modo chiaro, univoco e perfino con un certo candore.

Si erano dichiarati genericamente ma recisamente scontenti. Un po’ di tutto: dell’economia buona ma non eccellente, della posizione internazionale dell’America, della «paralisi delle istituzioni», del tono astratto e professorale dei discorsi di Barack Obama e del ritmo impacciato delle sue realizzazioni. E infine erano preda di un certo disgusto per il funzionamento delle istituzioni in genere. E arrivati alle urne si sono espressi di conseguenza, riducendo al minimo quel «riflesso patriottico» che in altre occasioni aveva indotto i cittadini ad accorrere a sostegno dei governanti che si trovassero in difficoltà o impantanati nelle loro contraddizioni. Hanno preferito farle proprie, mostrarsi per quelle che sono nel mese di novembre 2014, al compimento del sesto anno dopo avere eletto in Barack Obama il primo presidente di «colore» nella storia nazionale.

Non è la prima volta che una consultazione elettorale di questo livello, inferiore solo alla scelta dell’inquilino della Casa Bianca e dunque carica di poteri ma non di visibili responsabilità, viene usata come occasione per una serie di «no» senza l’obbligo di accoppiarli a una serie di programmi. Ora sappiamo «ufficialmente» quello che agli americani non piace. Fra due anni, quando essi saranno chiamati a eleggere il nuovo presidente, dovranno anche far sapere quale novità vogliono inserire nel governo e nella vita nazionali.

Per questo il risultato del 4 novembre 2014 è così univoco: è stato l’occasione di sfogare i malumori, esprimere impazienze, diffidenze, nostalgie, paure. Un vecchio detto distingue le reazioni di fronte a un bicchiere con del liquido dentro: c’è chi lo chiama mezzo vuoto e chi mezzo pieno. Quest’anno l’America è giudicata mezza vuota dai suoi cittadini e dall’«americano medio» che li incarna.

È stato, in sostanza, un voto di sfiducia: nelle istituzioni in genere, nella classe politica e soprattutto in quella democratica, nel presidente Obama e forse anche nella presidenza in genere. Un «salto di malumore» previsto, pianificato e probabilmente fuor di proporzione con i pur importanti problemi che il paese è chiamato ad affrontare. Il paragone meno inadatto può essere quello con la metà degli anni Trenta: la Grande depressione aveva compiuto sei anni, quattro dei quali spesi nel tentativo di risollevarsi seguendo le nuove, «rivoluzionarie» dottrine del New Deal, con risultati globalmente negativi. Quest’anno si era percorsa una strada egualmente lunga dall’inizio della Grande recessione e la situazione era ed è, per quanto riguarda l’economia, incomparabilmente meno grave. Non si è tornati a un boom, ma almeno a un modesto tran tran invece che a una catastrofe. L’America di Obama non potrebbe essere descritta nei tragici racconti di Furore o degli altri romanzi di Steinbeck.

L’opinione pubblica registra un malessere, non un morbo e rimprovera al «medico» lentezze, non esiziali errori. Le poche riforme proposte da Obama, che si possono anche restringere a quella della sanità, hanno ormai cominciato a funzionare, anche se senza gloria né entusiasmo. La disoccupazione, che ottant’anni fa era un flagello, è stata riportata a livelli medi, sotto il 6 per cento, meno della metà dell’Europa. Sono state avviate riforme di costume che a quasi metà degli americani non piacciono, ma a più della metà sì.

Perché, allora, tanto confermato malumore? Perché le masse amano dare giudizi semplici, univoci: trionfo o disastro. Dopo sei anni il bilancio di Obama non è trionfale, è medio o mediocre. Nutre malumori striscianti, alimenta nostalgie. Soprattutto, forse, nel campo della politica internazionale: una buona metà degli americani vive della sensazione che la Superpotenza non sia più tanto Super: con il travaso del potere economico dall’Occidente all’Asia, con l’allontanamento di regimi e paesi dall’ortodossia di Washington e di Wall Street, con il terrorismo che riprende vigore, con il divampare dei sogni torbidi dei vari Califfati. C’è una sensazione di lento commiato da una età dell’oro. E allora si punisce il nocchiero che forse ha saputo proteggere la nostra vita, ma non i nostri sogni.


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