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All’Europa manca un’idea di futuro

In Europa, il 2014 sarà ricordato come l’anno in cui si sono ribaltate le prospettive: doveva essere finalmente l’anno della svolta, della ripresa economica, anche per l’Italia. Si conclude, invece, con molti più interrogativi di quanti non ce ne fossero a dicembre scorso: l’economia tende alla stagnazione mentre i prezzi al consumo calano. Prevale un senso di generale disorientamento. I governi e le opposizioni politiche sembrano entrambi rassegnati, ciascuno nelle scelte già fatte: chi ad andare avanti comunque, nel perseguire gli obiettivi del Fiscal Compact, pur se temperato dalla flessibilità applicativa; chi nel ritenere fallimentare l’esperienza dell’euro e la gestione della crisi.

L’Eurozona si avvia alla stagdeflatione, in un contesto che ricorda gli errori della politica economica americana dopo la crisi del dollaro. Negli Usa, negli anni ’70, la politica keynesiana basata sulla maggiore spesa pubblica finanziata in disavanzo non riusciva a fare ripartire l’economia reale, cosicché l’input si esauriva in un mero aumento dei prezzi: la maggiore domanda aggregata si scontrava contro la rigidità dell’offerta, incapace di migliorare l’efficienza produttiva. Se la dichiarazione di non convertibilità internazionale del dollaro era stata la risposta ultima alla scarsa competitività internazionale, l’economia americana si dimostrava così incapace di recuperarla.

In Europa, invece, in questi anni si è ricercata una maggiore competitività dei singoli sistemi-Paese, soprattutto al fine di ridurre gli squilibri delle bilance dei pagamenti correnti dei Paesi deficitari e la loro dipendenza dall’estero per il finanziamento dei debiti pubblici e privati, attraverso la compressione dei salari ed il rigore fiscale. I minori costi del lavoro avrebbero dovuto migliorare la competitività delle imprese esportatrici. La riduzione della domanda aggregata avrebbe ridotto i deficit commerciali, mentre l’equilibrio strutturale del bilancio pubblico, nella prospettiva di diminuire anche il rapporto debito/pil, avrebbe progressivamente ridotto la dipendenza dai mercati finanziari internazionali. In realtà, la combinazione delle misure, unite al credit crunch, ha determinato il collasso della domanda aggregata ad un livello tale per cui non solo la produzione ristagna, ma anche il livello generale dei prezzi tende al ribasso.

Così come un eccesso di domanda aggregata americana si scaricava sui prezzi determinando la stagflazione (stagnazione+inflazione), nella Eurozona si è determinato un collasso della domanda aggregata che porta alla stagdeflazione (stagnazione+deflazione).

Come le fanterie nelle battaglie d’altri tempi, si fa quadrato. Ma paradossalmente ci si combatte a vicenda, su fronti interni: le imprese non investono per via della ampia capacità produttiva inutilizzata e continuano nella razionalizzazione dei costi; le famiglie rispondono alle prospettive di incertezza crescente, alla maggiore pressione fiscale ed al rigore nella concessione del credito, aumentando la propensione alla liquidità e rinviando gli acquisti per consumi durevoli, in attesa di tempi migliori; gli Stati cercano di razionalizzare le spese, contemperando il sostegno all’economia con il controllo del deficit; le banche, a cui sarebbe spettato il compito di finanziare la crescita, sono alle prese con vincoli regolatori sempre più stringenti, una raccolta sempre più liquida ed impieghi progressivamente critici. Anche le aste delle T-Ltro, il rifinanziamento del sistema bancario europeo da parte della Bce, finalizzato alla erogazione di nuovo credito all’economia reale, non sono state coronate dal successo che ci si attendeva.

Guardando all’indietro, appare chiaro che non è stata l’elefantiasi dei debiti pubblici europei a determinare la crisi del 2008: il Trattato di Maastricht ha rappresentato un deterrente serio e robusto, visto che il rapporto rispetto al Pil dell’Eurozona è calato in continuazione. Cessati gli effetti della crisi valutaria del 1992, nell’Eurozona si è passati dal 74,3% del 1996 al 66,4% del 2007. E’ stata la crisi a determinare l’inversione di tendenza: nel 2008 la media era già balzata al 70,3% per arrivare al 96,4% alla fine di quest’anno. Dovrebbe scendere appena un po’ nel 2015, al 96,1%. Tutto però dipende dalla variazione del pil, in termini reali e nominali: se non riparte l’economia e se l’inflazione continua nella sua discesa, tornerà lo spettro della sostenibilità dei debiti, pubblici e privati. Imprese, famiglie, Stati e banche, saranno tutti nella stessa scialuppa.

Senza crescita, in Europa nessuno potrà chiamarsi fuori. Ma il perno non sarà il Piano Junker, con i suoi 300 miliardi di euro di investimenti in tre anni da ripartire tra i 28 Paesi dell’Unione, raccogliendo il finanziamento sul mercato dei capitali rispetto all’esiguo capitale pubblico. E’ una risposta debole, ancor più per la vaghezza degli obiettivi perseguiti che per la disarmante esiguità delle risorse disponibili. Non c’è visione, né ambizione, siamo distanti anni luce da un Piano Delors.

All’Europa manca un’idea di futuro, una competitività internazionale diversa da quella che deriva dal trasferimento sui prezzi all’esportazione dei guadagni di produttività, dalla flessibilità del mercato del lavoro e dai bassi salari nel terziario. Siamo ancorati alla ricetta tedesca, su cui si è basata l’Agenda 2010: quella definita tra il 2003 ed il 2006 dalla coalizione tra Socialdemocratici e Verdi per mantenere in piedi le industrie tradizionali, riducendo al minimo gli investimenti in innovazione. E’ stata una scommessa al ribasso: niente di più che una redistribuzione del lavoro esistente attraverso l’estensione del tempo parziale, la precarizzazione del lavoro ancillare nel terziario, la progressiva dipendenza dal sussidio pubblico come fattore integrante del salario. I grandi investimenti pubblici tedeschi di quegli anni, quelli che dettero luogo allo sforamento dei parametri di Maastricht ed all’aumento del debito pubblico, sono stati destinati alla realizzazione di un sistema di sussidi permanenti alle imprese: l’Agenzia federale per il lavoro,  gli alloggi sociali garantiti ai lavoratori poveri, così come l’esclusione dalla tassazione dei minijob, non sono altro che aiuti di Stato.

Niente di più lontano, quindi, dal Piano di Lisbona, che nel 2000 prefigurava l’Europa del 2010 come il continente più dinamico ed innnovativo del mondo, capace di garantire la crescita e l’occupazione in un contesto di sviluppo sostenibile, dando la priorità al miglioramento dei servizi pubblici ed alla qualità della vita. Era, comunque, un esercizio di puro lirismo, perché nn si andò al di là della declamazione degli obiettivi: vent’anni dopo la scelta americana di scommettere sullo sviluppo dell’informatica, delle telecomunicazioni e di internet, l’Europa si è fatta dapprima trascinare e poi subito travolgere dalla bolla delle dot.com. Dal 2001 siamo rimasti attoniti, perdendo sempre più terreno nel campo dell’elettronica di consumo, nello sviluppo dei social media, della televisione digitale su dispositivi mobili, della ip-tv, delle piattaforme e degli standard informatici. Siamo andati a rilento anche nel copiare il Gps americano con il programma Galileo, che avrebbe dovuto sviluppare un sistema di interattività terra-spazio invece di insistere solo sulla maggiore accuratezza del rilevamento terrestre. Sui temi delle fonti energetiche alternative, abbiamo incentivato finanziariamente solo la produzione diffusa sul territorio, mentre le reti sono rimaste ferme alla vecchia struttura della distribuzione elettrica. Siamo rimasti fermi alla manifattura dei primi del novecento, alla centralità dell’industria automobilistica, ancora oggi vanto mondiale tutto tedesco.

All’orizzonte del 2010, per l’intera Europa era svanita la prospettiva di una crescita economica basata sull’innovazione, così come era stata rappresentata dal Piano di Lisbona. Nel frattempo, l’unica riforma strutturale è stata quella regressiva adottata dalla Germania, fondata sulla riduzione dei salari e la flessibilità del mercato del lavoro. Ora, veniamo chiamati tutti a fare un salto all’indietro, mentre il divario con gli Usa non è mai stato così grande.

Non basta il rigore fiscale, né la moderazione salariale. Ma non si può neppure parlare di crescita, quando non si sa dove andare.



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