Insieme staranno, insieme cadranno. La frase, quasi sempre in latino (simul stabunt simul cadent), si ripete di quando in quando nel linguaggio politico, e anche giuridico, per indicare la necessaria coesistenza di due istituti. La paternità è attribuita a papa Pio XI Ratti, il quale, nel corso delle polemiche successive all’entrata in vigore dei Patti Lateranensi e legate all’attività dell’Azione cattolica, intese sostenere che, nel caso l’Italia avesse denunciato il concordato, sarebbe all’istante venuto meno pure il trattato.
Si trova una conferma dell’assunto nel poderoso (e storicamente degno del massimo interesse) volume testé pubblicato dall’Archivio segreto vaticano, I fogli di udienze del cardinale Eugenio Pacelli Segretario di Stato (1931). Vi sono raccolti e ampiamente annotati gli appunti stesi da Pacelli, all’epoca segretario di Stato di Pio XI, cui successe nel ’39 col nome di Pio XII. Nei fogli dell’udienza del 26 luglio ’31, si legge che papa Ratti XI rilevava la necessità di far capire a Mussolini che «se egli viene fuori col Concordato, devesi rispondere che, secondo il pensiero del Papa e di altri, se cade il Concordato cade anche il Trattato». Simul stabunt simul cadent, palesemente. Conseguenze annunciate dal pontefice: «La S. Sede riprende tutti i suoi diritti di rivendicazione su Roma e sullo Stato della Chiesa, cominciate col 20 Settembre 1870».
Appariva palese la minaccia al capo del governo italiano: tali proteste non erano «assistite da cannoni o da baionette», ma lo stesso Mussolini aveva «riconosciuto e detto che rappresentavano una spina nel fianco dell’Italia». Non solo: il venir meno delle «Convenzioni Lateranensi» avrebbe creato «disagio anche all’estero». Il pensiero di Pio XI, fuori di ogni confronto il più rigoroso dei pontefici novecenteschi nel difendere interessi, poteri, presenza della Chiesa, era chiarissimo: non conveniva a Mussolini intaccare il concordato, perché sarebbe risorta la Questione romana e l’orologio sarebbe tornato al giorno dopo la breccia di Porta Pia. Fin qui, la faccenda era nota. Quel che invece appare una novità è l’affermazione finale: «La Convenzione finanziaria è a parte; è a saldo di una partita fra lo Stato e la S. Sede; vale a dire una liquidazione dei crediti della S. Sede verso il Regno d’Italia.»
La posizione del papa è limpida, ma totalmente infondata sul piano giuridico. Infatti il trattato lateranense comprendeva quattro allegati, tre concernenti le piante del territorio vaticano e degli immobili extraterritoriali ed esenti da tributi, mentre il quarto costituiva la «convenzione finanziaria», che liquidava a favore della S. Sede la somma di un miliardo e 750 milioni di lire. Dunque, se il trattato, secondo il simul stabunt di Pio XI, fosse caduto, avrebbe trascinato con sé gli allegati, che ne erano parte. Segnatamente, l’articolo 25 del trattato prevedeva che la «speciale convenzione», costituente «l’Allegato IV» mirato alla «liquidazione dei crediti della Santa Sede verso l’Italia», ne formasse «parte integrante». Conseguenza: la S. Sede avrebbe dovuto rendere 1.750.000.000. Se la partita della Questione romana si fosse riaperta, si sarebbe riaperta tutta intera, parte finanziaria compresa. Il cadent avrebbe inevitabilmente riguardato anche la finanza. Per amministrare quei fondi già nel giugno ’29 papa Ratti aveva creato una speciale (e ancora esistente) «sezione straordinaria» dell’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica.
Il pontefice, dunque, stava ben attento alla pecunia. Sul piano giuridico, gli argomenti erano inconsistenti: la convenzione finanziaria non era «a parte», bensì inserita nei patti. Sul piano concreto, invece, Pio XI badava a sottrarre all’interlocutore un argomento per lui spinoso e infido, perché toccava la cassa. E confermava la popolare credenza che dipinge i preti attaccati al denaro.