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Copiamo Spagna e Germania per riformare il lavoro (non solo l’articolo 18)

Non possiamo più continuare a chiudere gli occhi di fronte a questa emergenza generazionale. Rispetto alla quale la riforma Fornero è stata una grande occasione mancata. Soprattutto perché figlia di una grande illusione, che in Italia continua a influenzare pesantemente il legislatore e ogni sua riforma del lavoro. Una grande illusione che pervade trasversalmente giuslavoristi e mondo sindacale, sinistra dei diritti e perfino liberisti di matrice anglosassone: l’idea che si possa creare lavoro per decreto, attraverso riforme che puntino esclusivamente su modifiche dell’assetto normativo del mercato o del pacchetto di diritti connesso al lavoro. È l’ideologia del «dirittismo», uno dei «bachi» più pericolosi della nostra cultura del lavoro, di cui dobbiamo liberarci il più rapidamente possibile. Perché la grande sfida della creazione di lavoro – in Italia e nel resto d’Europa – può essere vinta soltanto sul terreno delle convenienze economiche e non su quello dei diritti, come dimostra proprio il caso tedesco.

La riforma Fornero non solo non ha creato neanche un posto di lavoro in più, ma ha causato nelle nostre aziende il blocco di migliaia di contratti a termine. Il Governo Letta ha cercato di correggere gran parte delle storture di quella riforma con il «pacchetto Giovannini», che ha abbattuto la pausa tra un contratto a termine e l’altro e ha eliminato le rigidità per l’accesso ai contratti flessibili. Ma anche il Governo Letta ha mancato nettamente l’obiettivo di favorire la creazione di occupazione. Sono stati molto deludenti, infatti, i risultati del suo bonus a favore dei giovani tra 18 e 29 anni, varato nell’agosto 2013. Nel giugno 2014 – dopo ben 10 mesi di operatività – secondo l’inps erano stati assunti con quel bonus poco più di 22 mila giovani contro i 100 mila previsti, e le aziende avevano utilizzato solo 160 milioni degli 800 stanziati per il 2014 (che pure erano stati considerati troppo pochi, al momento del varo).

Tutto ci voleva nell’autunno 2014, dunque, meno che il “grande ritorno” sulla scena dell’articolo 18. Con effetti strabilianti: giornali e tv ebbri di dibattiti sul tema, ma soprattutto (dopo tanti anni) scioperi generali e piazze di nuovo piene. Peccato che questa “bolla mediatica” non abbia nessuna correlazione con la realtà del mercato del lavoro. Oggi solo il 7-8% delle assunzioni avviene con contratti a tempo indeterminato muniti della garanzia del mitico articolo. E ogni anno si registrano soltanto 40 mila casi di controversie lavorative incentrate sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, di cui la stragrande maggioranza si risolvono con un accordo tra le parti. Ha senso dunque paralizzare un Paese da 60 milioni di abitanti e la sua classe politica per modificare una fattispecie così residuale? Servirebbe altro, evidentemente, e neanche di così difficile realizzazione. Basterebbero due mosse ben congegnate. La prima: “copiare” bene il meglio del modello spagnolo (sul rapporto tra contrattazione nazionale e aziendale) e di quello tedesco (minijob). La seconda: incidere sul vero vulnus del mercato del lavoro italiano, il basso tasso di trasformazione dei contratti flessibili in contratti a tempo indeterminato. Secondo le analisi Isfol, nel 2011 questo tasso era pari al 32,8%: ben 5 punti in meno di 5 anni prima, ma soprattutto tra i 10 e i 20 punti in meno dei principali Paesi europei. Incentivare con agevolazioni fiscali alle imprese questa trasformazione sarebbe, dunque, il vero antidoto contro la (eccessiva) precarizzazione del lavoro italiano.


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