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Cosa dice dell’Italia il rapporto Censis

Il rapporto Censis spiegato da quel garbato gran maestro del prof. De Rita ci mette di fronte ad una durissima verità, una sconfortante e avvilente fotografia di un paese massacrato da noi stessi, incapaci di far vivere quel senso di responsabilità e impegno sociale eredità dei nostri genitori che lo hanno risollevato dalle macerie di guerre devastanti. Alcuni passaggi sono fondamentali. Dove e perché sta diventando difficile nascere in Italia. Il nostro Paese presenta uno dei tassi di natalità più bassi a livello europeo: 8,5 bambini nati per 1.000 abitanti. Nel 2013 si è raggiunto il minimo storico dei nati (514.308) dopo il massimo relativo di 576.659 del 2008, con una riduzione di circa 62.000 nati.

E l’età media delle donne al parto (31,4 anni) è tra le più alte in Europa. Al Sud si registra una natalità più bassa di quella del Nord e del Centro a causa del minore effetto compensatorio della fecondità delle straniere. Ma pesa anche la maggiore incertezza occupazionale ed economica. Tra le cause della scarsa propensione degli italiani ad avere figli, le cause economiche vengono citate nella maggioranza dei casi (85,3%), soprattutto al Sud (91,5%). Se l’83,3% degli italiani è convinto che la crisi economica abbia un impatto sulla propensione alla procreazione, rendendo la scelta di avere un figlio più difficile da prendere anche per chi lo vorrebbe, questa quota raggiunge il 90,6% tra i giovani fino a 34 anni, che sono coloro che più subiscono l’impatto della crisi e allo stesso tempo dovrebbero essere i protagonisti delle scelte di procreazione.

Il rischio di scissione tra il welfare e i giovani. La radice della fragilità della condizione giovanile è occupazionale. In meno di dieci anni sono scomparsi oltre 2,6 milioni di occupati giovani, con un costo della perdita che ammonta a 142 miliardi di euro in termini di mancata produttività. Alle difficoltà reddituali si affianca una fragilità delle condizioni patrimoniali in relazione alle altre generazioni. La ricchezza familiare netta delle famiglie con capofamiglia giovane risulta pari a 106.766 euro (-25,8% rispetto al 1991), laddove le famiglie con capofamiglia un baby-boomer di età compresa tra 35 e 64 anni hanno visto un incremento del 40,5% e quelle con capofamiglia un anziano addirittura del 117,8%. Dei circa 4,7 milioni di giovani che vivono per conto proprio, oltre un milione non riesce ad arrivare a fine mese. Si stimano in 2,4 milioni i giovani che ricevono regolarmente o di tanto in tanto un aiuto economico dai propri genitori.

L’aiuto regolare genera un flusso di risorse pari a oltre 5 miliardi di euro annui. In questo contesto, il rapporto dei giovani con il welfare sta diventando più problematico, perché il 40,2% dichiara che negli ultimi dodici mesi ha verificato che ci sono prestazioni di welfare (sanitarie, per istruzione, di altro tipo) che prima aveva gratuitamente e per le quali ora deve pagare un contributo, il 57,5% registra prestazioni per le quali è aumentato il contributo che già pagava in passato e l’11,7% richiama prestazioni che prima aveva gratuitamente o con un contributo e che ora deve invece pagare per intero.

Gli anziani: altro che un costo: le funzioni economiche e sociali dei longevi. Se si considerano la spesa pubblica per le pensioni, pari in Italia al 61,9% della spesa per prestazioni sociali (il 16,1% in più della media Ue), e l’elevato consumo di sanità pubblica, non può non emergere un notevole costo sociale della longevità. Va sottolineato, però, che 2,7 milioni di persone con 65 anni e oltre svolgono attività lavorativa regolare o in nero; e le donne sono tantissime e si prendono cura di altre persone anziane non autosufficienti 972.000 ultrasessantacinquenni in modo regolare e 3,7 milioni di tanto in tanto; 3,2 milioni si prendono regolarmente cura dei nipoti e 5,7 milioni lo fanno di tanto in tanto; 1,5 milioni contribuiscono regolarmente con i propri soldi alla famiglia di figli o nipoti e 5,5 milioni lo fanno di tanto in tanto.

La verità? Ebbene sì si è compiuto il bypass dei corpi intermedi. Dall’autunno 2011 è partita una stagione di riforme che ha portato a 86 decreti approvati dal Consiglio dei ministri e presentati al Parlamento per la conversione in legge. Di questi, 72 sono stati convertiti in legge, 6 sono confluiti in altri provvedimenti e 3 erano in corso di conversione (a ottobre 2014). Per i 72 decreti, in sede di conversione in legge sono state introdotte oltre 1.300 modifiche e il testo in vigore corrisponde a un volume di circa 1,2 milioni di parole, vale a dire 11,6 volte la Divina Commedia di Dante. La trappola della promessa che non si traduce in processi reali (amministrativi, economici, sociali), il ricorso alla decretazione, l’aggiramento da parte della politica dei corpi intermedi e il parlare direttamente ai cittadini non hanno però portato al decollo dello sviluppo e dell’occupazione.



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