In Libia prosegue la guerra tra i tre centri politici del Paese mediterraneo: Tobruk a est, Misurata sulla Sirte e Zintan nelle montagne tripolitane.
Cosa divide le fazioni che si combattono? E quale può essere il ruolo occidentale nel dialogo tra le parti?
Ecco l’opinione di Karim Mezran, senior fellow dell’Atlantic Council, in una conversazione con Formiche.net.
Cosa preoccupa attualmente gli osservatori e analisti internazionali?
Ciò che desta più timore adesso è l’offensiva di Misurata, le cui milizie avevano appena ritirato le forze da Tripoli, in un apparente segno di buona volontà. In realtà, semplicemente per spostarle e attaccare a Est, con lo scopo politico-propagandiscito di mostrare come tutte le dichiarazioni di vittoria da parte del governo di Tobruk siano infondate. Il governo infatti ha contrastato l’offensiva solo con forze aeree, dato che conferma la sua debolezza, già vista all’opera a Bengasi, non ancora conquistata dopo mesi di sforzi.
E gli Stati Uniti, cosa vogliono e cosa temono?
Washington sostiene ufficialmente la posizione contraria ad ogni intervento da parte dei vicini in violazione della sovranità territoriale nazionale libica. Al tempo stesso teme molto l’incistarsi di nuclei terroristici che possano trovare riparo nell’anarchia libica e di lì colpire in tutto il mondo.
Quali sono i centri di potere che si sono formati e rafforzati?
Ci sono tre forze: quelle di Misurata, che adesso occupano la “capitale” Tripoli e quasi tutta la costa occidentale; quelle di Tobruk a Est, alleate dei miliziani che controllano i pozzi di petrolio con l’aiuto dell’Egitto ma che non riescono a conquistare Bengasi e infine Zintan, nel retroterra montuosa occidentale, che è ben armata e che combatte contro i misuratini di Tripoli nell’area.
Il quadro sembra vedere la prevalenza della costa; ma le forze dell’interno svolgono un ruolo?
In effetti si parla di una quarta forza pronta a intervenire dall’interno: i Tebu, appoggiati dai francesi e Sud e alleati di Tobruk. Di una loro offensiva in realtà non c’è traccia, il che conferma il carattere mediatico e surreale della guerra civile in corso, dove gli annunci smentiscono in continuazione i fatti, e viceversa. I Tebu sono nemici giurati dei Tuareg, i quali peraltro sono frammentati e non seguono un’unica direzione politico-militare nel conflitto.
Come valuta da Washington la posizione italiana sulla Libia, in particolare rispetto alla recente visita di Al-Sisi a Roma?
C’è un pò di confusione, perché mentre dopo l’incontro con Matteo Renzi le dichiarazioni sembravano andare verso un “semaforo verde” all’intervento del generale egiziano a Est, le parole usate dal neoministro degli esteri Gentiloni indicavano un atteggiamento più prudente e improntato al preliminare coinvolgimento della comunità internazionale. La posizione ufficiale del corpo diplomatico italiano è tuttavia di non prendere partito e promuovere un accordo fra tutte le parti, sotto l’egida internazionale. E’ una posizione condivisa anche dall’Algeria, che teme che una conquista egiziana dell’Est libico alteri gli equilibri nordafricani. Finora Algeri, che pure riconosce il governo di Tobruk, si è astenuta dall’intervenire e dal foraggiare le milizie, limitandosi a pattugliare i confini e a condurre un’offensiva diplomatica a sostegno della mediazione Onu.
C’è una prospettiva politica di sborgliare la matassa nel breve periodo?
No, perché finora le potenze regionali hanno interferito, spesso con l’idea di sostenere la riunificazione del Paese a partire da Tobruk (con l’eccezione della Turchia che punta le sue carte su Tripoli), tuttavia i successi militari e la rapida vittoria che essi si aspettavano, e che doveva sottendere questa strategia, non sono arrivati.