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Ecco il vero allarme di S&P’s sull’Italia

Inutile minimizzare, il downgrading del debito italiano da parte di Standard & Poor’s è un brutto colpo. Le motivazioni del giudizio spiegano bene il perché. L’agenzia di rating sostiene che la colpa è non solo della recessione e della bassa crescita, ma dell’aumento continuo del debito. Il prodotto lordo non si muove né in termini reali né su base nominale, cioè inflazione compresa (i prezzi crescono solo dello 0,2% e la deflazione tende a unificare i due parametri). Nel frattempo il debito continua a gonfiarsi (del 4,9% di qui al 2017) in termini assoluti. Secondo S&P arriverà a 2,256 miliardi.

Mentre a Bruxelles interessa il rapporto con il pil, ai mercati interessa la quantità di titoli che ogni anno vengono emessi dal debitore e la sua capacità di rimborsarli. Finora il costo del denaro vicino a zero ha limitato il danno, ma bisogna tenere conto che l’Italia deve destinare un decimo del prodotto annuo a pagare gli interessi. Se il pil non cresce almeno di un tale ammontare, il Paese non è più solvibile. Non siamo a questo punto, ma stagnazione più debito crescente può portarci di nuovo vicino al baratro. Di qui il downgrading.

L’agenzia americana si diffonde sugli scarsi margini di manovra fiscali (la flessibilità è oggettivamente limitata), sulla necessità di tagliare di più le spese e sulla esigenza di approvare un Jobs Act non diluito. Ma riporta in primo piano una questione molto dibattuta e mai affrontata davvero: lo stock del debito.

La dottrina ufficiale seguita sia dalla Banca d’Italia sia dal Tesoro è che il modo per fermarlo è aumentare l’attivo al netto degli interessi. Ciò sta avvenendo, l’Italia è l’unico Paese insieme alla Germania in surplus, ha ricordato il ministro dell’Economia, Padoan; però non produce gli effetti sperati. Si può fare di più, sempre di più, come vuole il Fiscal compact, ma allora si prolunga la stagnazione, facendo aumentare sia il debito in termini assoluti sia il rapporto con il pil. E il circolo vizioso si rimette in moto. Dunque, è ora di studiare altre strade e discuterne anche in sede europea, con la Commissione e con la Bce.

Se così stanno le cose, diventa davvero essenziale che Mario Draghi vinca la sua battaglia per l’acquisto di debiti sovrani. Molti commentatori italiani sostengono che la scelta è stata compiuta anche se non all’unanimità (del resto, non ce n’è bisogno). La maggior parte degli analisti internazionali (e gli operatori sui mercati) sostengono che non è così. Vedremo. Ma i tempi non saranno brevi. La prossima riunione sulla politica monetaria è alla fine di gennaio. Incrociamo le dita. Come notavano sia il Wall Street Journal sia il New York Times, Draghi e la Bce si giocano la loro credibilità. Da ormai due anni i prezzi sono inferiori al 2% (ora picchiano verso crescita zero) e non è previsto che raggiungano l’obiettivo nemmeno nei prossimi due. Ciò vuol dire che il mandato scritto nello statuto non viene rispettato. Su questo non ha nulla da ridire la corte di Karlsruhe?

Stupiscono, allora, certe critiche al QE che vengono dagli euroscettici. Hanno fatto campagna per una Bce che assomigli alla Fed e adesso che sta per accadere si tirano indietro? Quanto all’Italia, è evidente che con un debito del genere è impossibile persino quella fuoriuscita ordinata dalla moneta unica che gli anti-euro vorrebbero.

L’unico modo per evitare il crac è che la Bce alleggerisca le banche e le famiglie dei troppi Btp; meglio se riguarda anche quelli passati, ma già sarebbe un aiuto per quelli futuri, riducendo così lo spiazzamento dei prestiti e degli investimenti.

In conclusione, il downgrading potrebbe giocare a favore di Draghi, se il governo italiano manterrà la barra dritta e se il presidente della Bce riuscirà a mettere il cappuccio ai troppi rapaci che gli gira intorno sognando la sua poltrona. Hony soit qui mal y pense.

Stefano Cingolani


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