Metà (quasi) degli accertamenti fatti dall’agenzia delle Entrate è indirizzata a soggetti insolventi. Si va dalle società-prestanome alle persone fisiche nullatenenti. La denuncia viene in questi giorni dalla corte dei Conti, che ha fornito, al riguardo, numeri precisi e inediti. Il dato oggettivo è quello della insolvenza originaria dell’addebito, accompagnato da mancata impugnazione dell’avviso di accertamento regolarmente notificato. Ciò che attesta, quindi, da parte del contribuente-destinatario, un inaspettato atteggiamento autolesionistico, di indifferenza verso la – normalmente temuta – definitività dell’atto. Roba da casi limite, sparuti e isolati, insomma.
E, invece, no. Il dato inatteso, che ha sorpreso pure i giudici contabili (benché emerso già in precedenza grazie alla deliberazione n. 8/2011/G del 13 luglio 2011 della corte dei Conti), è che il fenomeno è strutturale. Ed ha una diffusione di massa, con numeri al di fuori di ogni ragionevole previsione. Il periodo osservato è il lustro che va dal 2009 al 2013. La corte ha sommato fra loro il cento per cento degli accertamenti notificati dall’agenzia delle Entrate, sia per numero di soggetti destinatari, sia per valore. E vi ha evidenziato la quota di essi riconducibile a una insolvenza originaria seguita dalla mancata impugnazione nei termini (in questi casi l’addebito nasce già morto, essendo chiaro da subito che da questi atti non si incasserà un solo euro). Ecco i dati nella tabella 7 che la corte dei Conti ha pubblicato a pagina 51 della deliberazione 17/2014/G del 2 dicembre 2014 (n.b. l’acronimo “MIA” sta per “maggiore imposta accertata”).
Qui di seguito riportiamo una nostra elaborazione che si limita a rendere più facilmente comprensibili gli stessi dati sopra indicati.
In termini di valore, dunque, il 41,8 per cento dell’accertato nasce all’origine come carta straccia. Significa, quindi, che l’agenzia delle Entrate genera essa stessa addebiti fasulli per via di atti di accertamento che nascono già morti all’origine. Tutto questo per una cifra ufficiale che, da ultimo, pesa 25 miliardi all’anno (conteggiando la quota “totalmente inutile” del carico iscritto a ruolo, la quale comprende imposte, sanzioni e interessi).
Di fronte a un fenomeno tanto grave (non a caso divenuto diffusissimo), il massimo di deterrenza e contrasto che l’agenzia delle Entrate è in grado di organizzare, a legislazione vigente, consiste nell’ostinarsi a reiterare in massa inutili verifiche. Controlli senza senso che sprecano disinvoltamente risorse risicatissime, e, nel contempo, fanno danni ulteriori ingolfando a vuoto Equitalia per decine di miliardi all’anno. Sulla base di atti che, viceversa, rimangono del tutto innocui nei riguardi dei destinatari, in quanto è sicuro che dietro la mancata impugnazione di un accertamento rimasto non pagato vi è chi non ha nulla da perdere (privo di beni immobili e di altri valori aggredibili da Equitalia).
I nullatenenti, però, non sono tutti uguali. E se dietro una mancata impugnazione di una persona fisica non può che esservi un caso di reale disagio economico (in tanto, infatti, a questi ultimi conviene non impugnare un addebito, in quanto essi sono realmente privi di beni e, anzi, con la prospettiva di rimanerne senza per tutta la vita residua). Quando la mancata impugnazione è opera di società di capitali, invece, il caso è ben diverso. Il sospetto molto concreto in tali casi è che trattasi di società utilizzate come prestanome. Per la maggior parte si tratta infatti di società commerciali fittizie, studiate apposta da delinquenti fiscali per fare da schermo a protezione di anonimi beneficiari effettivi. I quali riescono a sottrarre al Fisco – a sua insaputa e con garanzia certa di impunità – ingenti serbatoi di liquidità illecita.
Al riguardo, la corte dei Conti fornisce dati preziosi, differenziati sia per dimensione aziendale che per natura giuridica del soggetto. Nella tabella di seguito sono riportati i dati complessivi, qui elaborati distintamente per persone fisiche e società di capitali. E che dimostrano come, in termini di valore accertato, le società di capitali hanno un’insolvenza all’origine per 6,860 miliardi annui, mentre le persone fisiche vedono lo stesso fenomeno ridotto alla metà (3,921).
Al di là del distinguo fra diverse tipologie di soggetto (che meriterebbe maggiori approfondimenti, in verità), ciò che più preoccupa, sul punto, è che nessuno sembra accorgersi di questa enormità. Infatti, tutti i documenti governativi che di recente affollano la scena nel voler raccontare a tutti i costi l’evasione fiscale (compreso il “Rapporto sulle strategie di contrasto” varato dal consiglio dei Ministri il 30 settembre scorso, ai sensi del decreto-legge n. 66 del 2014) sono viceversa strabici. Ignorano del tutto questa condizione degenere del Fisco nostrano, guardando più alla “pagliuzza per colpa altrui”, che alla “trave per responsabilità propria”.
Tutto questo è frutto, evidentemente, di un approccio moralistico sempre più diffuso e al tempo stesso sempre più deleterio. Che – quasi inconsapevolmente – genera, sia nei tecnici del Fisco (Mef-Entrate), sia nei decisori politici, una totale anestesia cerebrale, un azzeramento della lucidità mentale.
Fuori da ogni pregiudizio moralistico, invece, è facile far funzionare il cervello e rendersi conto che una disfunzione tanto banale e così spaventosamente grossolana è evitabile. Non è normale che ancora nel 2014, la prima struttura nazionale deputata al controllo delle frodi fiscali sia per metà condannata a lavorare a vuoto, impantanata dentro un percorso assurdo e completamente senza senso. Sarebbe sufficiente che chi di dovere se ne accorga. E, dunque, che se ne occupi.
E invece no. Proprio su questo punto, quella sorta di cancro rappresentato dall’approccio moralistico di cui tuttora sono intrise le strategie fiscali, nel corso di queste settimane ha colpito ancora. Lo ha fatto nella legge di stabilità 2015, attualmente in corso di approvazione. Fra le misure in arrivo, infatti, ve ne è una che pronostica saranno incassati, a regime, 928 milioni annui. Ciò a seguito di pagamenti spontanei aggiuntivi che in futuro saranno stimolati dall’invio, da parte del Fisco, di semplici lettere di segnalazione. Lettere che, stando alle previsioni, raggiungeranno quelle partite Iva che – dagli incroci tramite elenco clienti e fornitori (spesometro) – risultano aver portato a credito, verso l’erario, più Iva di quanto il proprio fornitore non abbia portato a debito. Questa entrata sarebbe garantita – così racconta la Relazione tecnica al ddl – poiché, secondo l’aspettativa del Fisco, chi sarà raggiunto dal sollecito si precipiterà a pagare la differenza, poiché si sentirà in qualche modo messo con le spalle al muro.
Queste ultime conclusioni, tuttavia, funzionano solo nella teoria, non nella pratica. Siamo di fronte, infatti, a un ennesimo abbaglio che non porterà mai nulla nelle casse dello stato. Al riguardo, infatti, esiste la deliberazione n. 8/2013/G del 31 ottobre 2013 della corte dei Conti, che smentisce questa ipotesi sulla base di dati di fatto casualmente emersi riguardo a identica situazione.
Il fenomeno delle squadrature generate incrociando i dati di elenco clienti e fornitori, infatti, è già stato oggetto di lavorazione, da parte dell’agenzia delle Entrate, con riferimento agli elenchi a suo tempo presentati per il biennio 2006-2007. A tal riguardo, tuttavia, risulta che furono emessi avvisi di accertamento per un addebito complessivo di euro 8,263 miliardi (i dati sono rilevati dal predetto documento della corte dei Conti, si veda anche qui per un approfondimento dettagliato di quella indagine, con particolare riferimento ai dati ivi sintetizzati nelle TABELLE 5, 6 e 7). Gli incassi conseguenti, tuttavia, tramite gli strumenti di adesione concordata, stando alle rilevazioni ufficiali della corte, furono appena pari a 130 milioni (2%), mentre la quasi totalità degli atti di accertamento, per un valore di 7,408 miliardi (pari al 90% del plafond accertato), benché regolarmente notificati, furono ignorati dai rispettivi destinatari, divenendo definitivi, senza alcun pagamento.
Questo dato è schiacciante ed univoco. E sta a significare che, evidentemente, sotto il fenomeno diffuso delle squadrature generate da elenco clienti e fornitori si nasconde una patologia molto specifica di evasione. Quella chiamata “evasione da riscossione”, ovvero quella per l’appunto realizzata maggiormente da società-fantasma che fungono da teste di legno.
Se così stanno le cose, dunque, è del tutto irragionevole pronosticare – come invece fa il ddl stabilità in arrivo – che una semplice comunicazione bonaria di “squadratura”, mandata alla partita Iva, possa spaventare quello stesso tipo di destinatario che, viceversa, in passato, nel 90 per cento dei casi non si è fatto intimidire neppure da una verifica in azienda seguita da avviso di accertamento consegnatogli con tanto di ufficiale giudiziario.
Prima di avventurarsi in ingarbugliate ipotesi fra radici quadrate e studi econometrici, pertanto, sarebbe utile che gli “accecati autori” delle strategie fiscali più recenti si occupassero di interpretare il presente attraverso la pura e semplice analisi del passato, a cominciare dalla lettura di documenti di indagine quali quelli assai preziosi varati di recente dalla corte dei Conti.