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Perché è folle accapigliarsi sull’articolo 18

Il dibattito sul lavoro degli ultimi mesi è totalmente incentrato sulla solita italiota appartenenza a guelfi o ghibellini, al Milan o all’Inter, alla Roma o alla Lazio. In questo caso ad essere pro o contro l’articolo 18.

Mi chiedo se coloro che dibattono su tale argomento si siano mai incontrati con imprenditori, manager, lavoratori, o direttori del personale chiedendo loro cosa ne pensano dell’articolo 18. A me capita di fare questa domanda a quasi tutte le organizzazioni con le quali lavoriamo e la risposta è molto semplice: a loro non importa. O, meglio, nella scala delle loro priorità assume una posizione non così rilevante.

Alle organizzazioni interessa poter assumere persone capaci, volenterose e interessate. Farlo in maniera veloce, senza per forza contrarre un matrimonio indissolubile. Si sa perfettamente che oggi è più semplice separarsi dal proprio marito o dalla propria moglie piuttosto di riconoscere che un’organizzazione e un lavoratore non stanno più così bene insieme.

Se invece pensiamo ad un lavoratore, siamo sicuri che il suo interesse, al di là dello stipendio, sia rimanere in luogo di lavoro dove non condivide più valori, missione e approccio? Dove viene considerato alla stregua di un mezzo di produzione e non di un valente potenziale di sviluppo per l’organizzazione?

Purtroppo oggi non si discute di cos’è un contratto a tutele crescenti, dei contratti di solidarietà anche per aziende sotto i 15 dipendenti, di telelavoro, di un’agenzia per il lavoro che finalmente riesca a mettere in contatto domanda e offerta di lavoro, di incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato. In sintesi, di come migliorare i luoghi di lavoro per fare in modo che le persone non vadano “a faticare” ma semplicemente a dare il proprio contributo per la crescita della propria organizzazione, della propria esistenza e dell’intero Sistema Paese.

Oggi, come negli ultimi 20 anni di questo morente capitalismo relazionale, non si discute di contenuti ma solo di bandiere; bandiere vecchie, logore e ormai fatiscenti.

E quindi iniziamo a parlare di contenuti. Una ricerca del Prof. Alex Edman della London Business School su dati Great Place to Work®, pubblicata a luglio 2014, conferma il legame tra la fiducia nei luoghi di lavoro e gli “enormi ritorni di business” (abnormal stock returns). Il ricercatore ha analizzato circa 40.000 imprese per minimo 10 anni; circa 3 milioni di lavoratori in 14 Paesi. Edmans dimostra inoltre che questo legame è tanto più forte quanto maggiore è il livello di flessibilità in entrata e in uscita dei mercati del lavoro.

Tito Boeri sostiene che “il 45 per cento degli occupati in Italia in età 19-30 anni si adatta a svolgere un’attività poco coerente con il proprio percorso di studi e quasi uno su due percepisce una remunerazione considerata inadeguata”. Proprio la popolazione che l’ex Ministro del Lavoro Giovannini definisce come “la più scolarizzata, la più innovativa, la più tecnologica, la più poliglotta”.

Perché succede questo? Probabilmente perché ci facciamo la domanda sbagliata. Dovremmo smetterla di chiederci se è giusto o no mantenere l’articolo 18 (gli anglosassoni direbbero: who cares?); iniziamo a chiederci come sono fatte le migliori imprese. Quelle che investono sulle persone, quelle che assumono giovani brillanti e capaci, quelle che formano, quelle che considerano i propri dipendenti come il loro vero valore strategico inimitabile.

Queste imprese, che noi pubblichiamo da anni in una classifica chiamata Best Workplaces Italia hanno fatturati che crescono mediamente di oltre 6 punti percentuali (rispetto ad un Paese che arretra), hanno assenteismo basso (4,29%), distribuiscono 61 ore di formazione procapite annue e anno un tasso di abbandono del 3,41%.

E quindi smettiamola di tifare per un’idea o, peggio ancora per un’ideologia, e iniziamo a parlare di contenuti. Siamo il Paese delle eccellenze, proviamo a guardare i migliori; dimostriamo che possiamo essere un Great Country to Work and Live.



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