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Perché senza investimenti l’Europa rischia di stramazzare. Report Bnl

Senza una spinta forte sugli investimenti per l’economia europea non ci sarà ripresa. I dati di PIL del terzo trimestre lo hanno di recente confermato. Tra il meno zero virgola uno dell’Italia e il più zero virgola uno della Germania ciò che continua a mancare è il passaggio decisivo dal folle alla marcia. Chi paventa per l’Europa il rischio di una stagnazione giapponese dimentica che a Tokyo il tasso di disoccupazione non va oltre il quattro per cento, meno della metà che in Europa. Più che una minaccia, la sindrome giapponese per noi potrebbe essere un augurio.

Senza una ripresa decisa degli investimenti i numeri della crescita europea potranno al meglio cristallizzare le perdite o i magri risultati conseguiti negli ultimi sei anni. Non è solo lo scenario dell’Italia, indietro di nove punti sul 2008. Sono considerazioni che valgono per la nordica Finlandia, che ha un PIL oggi di sei punti più basso rispetto a sei anni fa e per la stessa Germania, i cui recuperi post-crisi sono appena la terza parte della crescita americana. Per non dire della Grecia, tornata sì ora per qualche decimo fuori dalla recessione, ma con un PIL di oltre un quarto più piccolo e con una disoccupazione che ad Atene rimane sopra i venticinque punti percentuali.

Per far ripartire gli investimenti serve migliorare le aspettative del settore privato e spendere bene qualche denaro pubblico. Serve uscire dal tunnel di una austerity pericolosamente pro-ciclica. Nel 2008 gli investimenti pubblici ammontavano ad una cinquantina di miliardi di euro in Italia come in Spagna. Nel 2013 sono scesi sotto i quaranta miliardi in Italia e poco al di sopra dei venti in Spagna. Nel 2013 gli investimenti pubblici sono ammontati ad appena una sessantina di miliardi in Germania su un PIL che punta ai tre trilioni di euro: in proporzione, la metà di quanto si spende negli USA. In un’Area euro fresca di adesione ai vincoli complessi del Fiscal Compact il contenimento degli investimenti pubblici è apparso più semplice rispetto ad altre manovre di “spending review”. Una distorsione che va corretta.

Un contributo per rilanciare gli investimenti pubblici e privati potrà venire dal Piano europeo di cui ora si conoscono i dettagli. Tra “moltiplicando” e “moltiplicatore” la strategia della nuova Commissione europea privilegia il secondo. Con una ventina di miliardi di euro di apporti dai fondi europei il Piano Juncker mira a generare risorse per oltre trecento miliardi. L’idea è che i danari europei servano a garantire la parte più rischiosa dei finanziamenti e su questa garanzia si innesti una leva finanziaria tra pubblico e privato. Ventuno miliardi non sono molti, ma un aumento dei capitali iniziali su cui agirà la leva potrà essere assicurato da contributi dei singoli governi da considerare “neutrali” rispetto agli obblighi del Fiscal Compact.

Se neutrale vorrà effettivamente dire non soggetto ai vincoli previsti su deficit e debito pubblici, il Piano Juncker potrà segnare una prima svolta fuori dal tunnel buio dell’austerity. Ugualmente rilevante appare il punto che i progetti di investimento finanziati dall’EFSI saranno selezionati mediante graduatorie di merito sulla qualità delle singole iniziative. Per l’Italia – e non solo per noi – questo costituirà un incentivo ulteriore a realizzare riforme di contesto che accrescano la capacità di attirare investimenti, a partire da quelli pubblici europei. Oltre le riforme, servirà tanta buona amministrazione.

Fuori dai debiti pubblici nazionali, ma dentro una competizione sulla qualità dei progetti. Gli investimenti pubblico-privati innescati dal Piano Juncker potranno aiutare l’Europa a ritrovarsi come comunità di sviluppo piuttosto che condominio di regole.
Una svolta per riannodare economia e finanza. Magari anche decidendo di ammettere i titoli del nuovo Fondo europeo degli investimenti strategici tra gli acquisti privilegiati nel quadro del trilione di euro di “quantitative easing” annunciato dalla Banca centrale europea.

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