La legge delega approvata dal Parlamento della Repubblica denominata Jobs Act consentirà al Governo Renzi in tempi brevissimi di adottare 24 decreti legislativi che modificheranno definitivamente il volto del diritto del lavoro italiano.
La scommessa è quella di incentivare lo sviluppo dell’economia attraverso l’imposizione di una maggior flessibilità ed una pesante semplificazione dell’apparato normativo.
Non è possibile capire oggi cosa potrà realmente cambiare rispetto all’esistente né ipotizzare come il mercato del lavoro ed i Tribunali accoglieranno le innovazioni.
Ma una prima analisi è possibile, specie per apprezzare il desiderio di rottura del legislatore delegante rispetto al passato.
Una primo punto da valorizzare in positivo è certamente la delega per la semplificazione.
Gli operatori del diritto, ma ancor più gli imprenditori del nostro Paese, sono da sempre in difficoltà nell’utilizzare un apparato normativo disorganico derivante dal scelte legislative talora adottate in via d’urgenza, altre volte frutto di compromesso.
È un dato di fatto innegabile: se la semplicità delle leggi, sin dai tempi antichi, è indice della civiltà di una Nazione, la nostra disciplina lavoristica ha bisogno di profonde revisioni.
Viene alla mente il dedalo di ammortizzatori sociali attualmente esistente per il quale ormai sfugge il criterio per cui possa o meno essere concessa ed a quale impresa una Cassa Integrazione Ordinaria, Straordinaria o in Deroga.
È poi assai semplice pensare alle svariate tipologie di contratti di ingresso e/o flessibili che le imprese utilizzano per lo più indifferentemente con l’unica immanente finalità di non stabilizzare il dipendente in un periodo di incertezza economica.
Gli oneri burocratici sono infine una anomalia tipica del nostro Paese. Se si pensa, ad esempio che, in democrazie comparabili alla nostra, il licenziamento non richiede neanche la forma scritta, è giocoforza ritenere che alle nostre imprese si è richiesto così tanto a livello di adempimenti che alla fine ciò ha finito con lo scoraggiare gli investimenti.
Si è detto in premessa che al momento si posso valutare solo gli obiettivi e le intenzioni.
Ma quando, all’interno delle deleghe, si legge che il Governo dovrà provvedere alla razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti (anche mediante abrogazione di norme, connessi con la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro, con l’obiettivo di ridurre drasticamente il numero di atti di gestione del medesimo rapporto, di carattere amministrativo) non si può non pensare che qualcosa si sta muovendo nel verso giusto.
Il target della semplificazione chiaramente identificato dal Jobs Act (anche mediante norme di carattere interpretativo, o abrogazione delle norme interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali o amministrativi) potrebbe poi essere un’ottima occasione per eliminare per sempre i soliti dibattiti fra Professionisti e clienti in cui, a precisa domanda, il condizionale nella risposta è d’obbligo.
Chi scrive non è dell’idea che gli investitori siano scoraggiati dall’art. 18 (vecchio regime) quanto dal peso della burocrazia e dall’incertezza nell’interpretazione del diritto.
Semplificazione e razionalizzazione sono un must per il rilancio dell’economia: trovarle come chiaro obiettivo all’interno di una legge delega è un buon inizio.
Altro tema rilevante, che ha forse eccessivamente monopolizzato il dibattito nel corso del lavori, è quello del sostanziale superamento dell’art. 18 s.l.
La legge delega prevede che la reintegra sarà prevista, oltre che per i licenziamenti discriminatori, solo per le più gravi forme di vizio dei licenziamenti disciplinari (verosimilmente il punto di caduta sarà limitare la tutela reale al caso in cui il fatto contestato non è stato tout court commesso dal lavoratore).
I licenziamenti (illegittimi) con motivazione economica verranno invece sanzionati, in ogni caso, con la sola tutela risarcitoria.
Gli operatori del diritto del lavoro sanno che il punto di approdo di questa revisione dell’art. 18 l. 300 non è sostanzialmente difforme dal sistema attuale.
La legge n. 92 del 2012 (nota come legge Fornero) ha già profondamente modificato l’art. 18 prevedendo, per il licenziamento per motivi economici, la reintegra quando il fatto posto a base del recesso sia manifestamente insussistente; per i disciplinari è invece prevista la riammissione solo quando il fatto non è stato commesso o quando il c.c.n.l. applicabile preveda per quel fatto una sanzione conservativa.
È agevole capire che l’art. 18, nella versione vigente dal 1970 al 2012, è già stato sostanzialmente abrogato dalla legge Fornero. L’ulteriore depotenziamento delle tutele che potrebbe arrivare con i futuri decreti legislativi non potrà incidere in modo significativo, rispetto all’assetto attuale, sul concreto atteggiarsi del rapporto fra aziende e forza lavoro.
Ed a chi potrebbe eccepire che i “nuovi” licenziamenti per motivi economici o disciplinari potrebbero essere un comodo strumento per disfarsi di dipendenti sgraditi, è agevole opporre che la nostra Magistratura del lavoro è molto attenta, da sempre, a sanzionare i comportamenti discriminatori e in frode alla legge.
Personalmente non credo che il risultato del Jobs Act potrà essere quello di creare più precarietà.
È un fatto che la crisi economica ha acuito il bisogno di flessibilità delle nostre imprese e che la somma dei due fattori ha prodotto una precarietà endemica, specialmente nel mondo giovanile.
Se la soluzione proposta dalla legge delega sarà quella giusta sarà il tempo a dirlo. Ma di certo non si potrà parlare di occasione mancata per agganciare la ripresa.
Massimo Compagnino, partner studio legale Lupi e Associati di Milano