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Jobs act e pubblico impiego, una questione da chiarire, prima che si scateni il caos

Ha ragione Giuliano Cazzola quando rileva che nel pubblico impiego non esiste quel licenziamento per motivi economici che costituisce tanta parte del Jobs act, che il testo unico sul pubblico impiego (il decreto n. 165 del 2001) prevede, in caso di eccedenze di personale una specifica procedura di mobilità e che per il licenziamento disciplinare sono espressamente disciplinate violazioni e procedura.

Parimenti vero è che lo schema di decreto licenziato dal Consiglio dei ministri in apertura, nel definire l’ambito di applicazione, si riferisce espressamente ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, cioè a tipologie professionali tipiche del lavoro privato.

Si tratta indubbiamente di argomenti importanti, di buon senso e decisamente più solidi rispetto a quelli, inconsistenti, prospettati dal Governo e fondati sulla diversità delle procedure di assunzione (il concorso pubblico) o, peggio, sulle diverse intenzioni dell’esecutivo e sulle rassicurazioni dei tecnici al Ministro Madia. Ma temo che anche questi argomenti possano non bastare. Perciò insisto che occorre una presa di posizione chiara. E provo a spiegare perché.

Innanzitutto, come ho già scritto (nel Bollettino Adapt n. 44, del 15 dicembre 2014) prima che venisse pubblicato lo schema di decreto, il decreto n. 165 del 2001, dichiara applicabili anche ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche il codice civile e le leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni speciali (art. 2) nonché lo Statuto dei lavoratori (art. 51).

Dunque, affinchè le nuove regole, anche se dettate per il settore privato, non si applichino alle p.a. occorre un’esplicita esclusione o una diversa disposizione speciale. Nel Jobs act (l. n. 183 del 2014), a differenza di altre leggi precedenti (ad es. legge Biagi e legge Fornero) non si dice nulla. Cosicchè è giocoforza confrontarsi con le regole generali. E nelle schema del primo decreto legislativo attuativo, quello sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti? Anche qui nulla di chiaro ed esplicito.

Si percepisce, è vero, tra le pieghe, che tutto l’impianto è stato concepito avendo in mente il lavoro privato. Ma – e qui sta il problema – resta un “retropensiero”, mai esplicitato e quindi non rilevante giuridicamente.
Il riferimento a operai, impiegati e quadri è senz’altro un sintomo di questa intenzione, ma non basta. E’ vero infatti che già dalla fine degli anni ‘70 nel lavoro pubblico si ha una parificazione tra operai ed impiegati e che il sistema di inquadramento delineato dal testo unico del 2001 è speciale.

Peraltro l’art. 2095 del codice civile rientra tra le disposizioni appartenenti al Capo I, Titolo II, Libro V, espressamente richiamate dall’articolo 2, comma 2, del decreto n. 165 del 2001, e il fatto che tale norma, in forza del rinvio incondizionato alla contrattazione collettiva, non possa vincolare quest’ultima, non è elemento di per sè decisivo ai fini che qui interessano. Le categorie legali di matrice codicistica non sono infatti astrattamente incompatibili con il lavoro pubblico. Semplicemente, la contrattazione collettiva può disattenderle.
Quanto alla compatibilità delle nuove disposizioni in tema di licenziamento, occorre rilevare innanzitutto che lo schema di decreto si occupa non del licenziamento in quanto tale, bensì delle conseguenze del licenziamento illegittimo, rimodulandole in relazione all’anzianità di servizio del dipendente, oltre che, come già nell’art. 18 st. lav. post Fornero, in base alla tipologia e alla gravità del vizio.

Ebbene, a tal proposito è sufficiente ricordare che, pur tra mille perplessità, dottrina e giurisprudenza hanno per lo più ritenuto applicabile al pubblico impiego privatizzato sia la disciplina sostanziale (nuovo art. 18) sia quella processuale in materia di licenziamenti (cosiddetto “rito Fornero”) introdotte dalla l. n. 92 del 2012.

In ogni caso, anche nelle pubbliche amministrazioni esistono sia il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sia quello per giusta causa o giustificato motivo soggettivo (licenziamento disciplinare). Le peculiarità del primo e il fatto che il secondo sia connotato da una speciale disciplina sostanziale e procedimentale non rappresentano peraltro di per sé un ostacolo all’applicazione delle nuove regole attuative del Jobs act. Non vi è infatti alcuna incompatibilità né giuridica né logica a ritenere che anche per i nuovi assunti nelle pubbliche amministrazioni, in caso di accertata carenza di giustificazione o di vizio formale del licenziamento possa trovare applicazione il nuovo apparato sanzionatorio, in luogo di quello attualmente vigente per chi è già in forza.

E’ vero, invece, che nel lavoro pubblico non esistono i licenziamenti collettivi, che la gestione delle eccedenze è affidata ad una specifica procedura di mobilità (art. 33 ss. decreto n. 165 del 2001).A tal proposito si discute se al termine del collocamento in disponibilità la risoluzione del rapporto richieda o no un atto formale assimilabile al licenziamento e se, in caso di rilevata illegittimità del collocamento in disponibilità, sia applicabile l’art.18 dello Statuto o, piuttosto (come pare più esatto), sorga il diritto al ripristino del rapporto di lavoro e alle differenze retributive. Qua dunque l’applicazione delle nuove regole non sembra ipotizzabile.

In ogni caso, per concludere, se si ha a cuore la certezza delle regole, non credo vi siano alternative: o si afferma espressamente (nei decreti) che le pubbliche amministrazioni sono escluse, oppure è bene che il Governo chiarisca cosa si applica e cosa no. Altrimenti, ancora una volta, sarà il caos.

Personalmente, ritengo che la strada preferibile sarebbe la seconda. Se, per contro, la decisione finale dovesse essere quella di fermarsi a metà del guado e di lasciare intatta la sostanziale inamovibilità (di fatto ancor prima che di diritto) dei lavoratori pubblici assisteremmo all’ennesima storica occasione sprecata e all’ulteriore allargamento della già ingiustificata frattura fra chi viene assunto in un’impresa privata e chi ha la buona sorte di finire in una pubblica amministrazione.

Perché, ricordiamolo nelle p.a. si licenzia poco non in quanto non si possa, o vi siano regole più rigide, ma perché difficilmente il dirigente accetta di assumersi il rischio di essere chiamato dalla corte dei conti a pagare di tasca propria laddove il lavoratore impugnasse il licenziamento e ottenesse dal giudice la reintegrazione e il risarcimento del danno.

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