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La costituzione va cambiata

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Parecchi anni orsono – correva il 1977 e la politica italiana era ravvivata da partiti come la Dc e il Pci e da personalità come Aldo Moro ed Enrico Berlinguer – ci si chiedeva, dopo trent’anni di esperienze non sempre coerenti con la carta sottoscritta in fine 1947, se la costituzione fosse ancora viva o non necessitasse di una corposa revisione.

Mario D’Antonio, che aveva diretto l’ufficio studi della camera dei deputati, cioè un luogo dal quale si potevano seguire compiutamente le vicende politiche e legislative nazionali, scrisse un libro, La costituzione di carta, annunciando senza mezzi termini: «La costituzione è morta». Siamo in fine 2014, abbiamo avuto svariate commissioni bicamerali dedicate alla formulazione di un nuovo testo costituzionale; in questa legislatura è stata sollevata e discussa una prima revisione ormai ineludibile come la riforma del senato o la sua eliminazione. Ma resistenze formidabili sono nel frattempo insorte, particolarmente nel partito di maggioranza relativa, il Pd, che si proclama di sinistra ed è, invece, oggettivamente, qualcosa di estremamente conservatore.

Nel 1977 D’Antonio, che poteva ben considerarsi uno dei maggiori e più attenti costituzionalisti anche se non era un accademico togato, non ebbe difficoltà a riconoscere che la carta del 1947 restava in vigore in alcuni suoi precetti marginali (per esempio l’articolo 12, in cui si stabilisce che «la bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde bianco e rosso in tre bande verticali di uguali dimensioni»), ma non era più vitale nelle sue linee fondamentali. A differenza di altri semiriformatori autorevoli, che parlavano e continuavano a sentenziare di modificare la sola seconda parte della costituzione, D’Antonio avvertiva che questa, nel complesso, «è ormai un pezzo di carta che descrive soltanto se stesso».

Già allora si mettevano in discussione gli strapoteri del sindacato, diventato il primo attore della politica italiana, tanto che Luciano Lama, che pure non era un barricadiero, lo chiamava «grande potenza». Le regioni, nate con vent’anni di ritardo, dopo un settennio già ristagnavano in una crisi d’identità, tra soprassalti di centralismo, da un canto, e meschine gestioni assistenziali, dall’altro. Appena qualche giorno fa il premier Renzi ha invitato tutti, politici e non, a riflettere che le regioni sono diventate i luoghi dei maggiori e più ingiustificabili sprechi pubblici e di arricchimenti e corruttele personali dei suoi gestori, benché elettivi. E, quindi, ha sollecitato mutamenti sostanziali delle regioni a statuto speciale e ordinario relative a: formazione, composizione, dotazioni finanziarie, funzionalità e gestione.

Come lamentava D’Antonio, ancora nel 2014 è in atto un mutamento delle titolarità del potere centrale e locale. Ma è anche trasparentemente visibile una degenerazione che esponenzia gli abusi più che l’efficienza dei servizi. Per non parlare dell’ordine giudiziario, giunto ad un livello di politicizzazione estrema che non fa bene né all’Italia, né alla onorabilità e indipendenza dei giudici. Le tesi di D’Antonio vennero accolte come eccessivamente pessimistiche. Erano, invece, il frutto di meditazioni su un ordinamento che, architettato in funzione di una buona amministrazione, s’era ridotto a produrre un progressivo aumento delle fasce parassitarie della società e il sacrificio degli emarginati: non dell’operaismo, ma degli ultimi: i disoccupati e, purtroppo, anche i pensionati, che taluni ideologismi correnti considerano come dei sopravvissuti, i protagonisti di quella che Francesco definisce «economia di scarto».

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