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Parliamo di macroregioni senza fissazioni alla Gianantonio Stella?

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Sergio Chiamparino e Nicola Zingaretti hanno ripreso una discussione sulla ristrutturazione delle Regioni italiane che era stata avviata dalla proposta, sull’onda delle antiche tesi di Gianfranco Miglio, di costituire delle macroregioni, avanzata poi nel Duemila sia dalla Lega Nord sia da Roberto Formigoni, allora governatore della Lombardia.

Come sempre avviene in Italia la discussione (finalmente) parte solo quando la sinistra se ne fa protagonista. I presidenti di Piemonte e Lazio propongono una versione minimalistica di macroregioni (12 invece delle attuali 20) ispirata essenzialmente alla logica gianantoniostellestica (quella dei minori costi a tutti i costi) che ha già prodotto le scadenti riforme istituzionali recentemente attuate o in corso di attuazione (la cosiddetta abolizione delle province, il cosiddetto decollo delle città metropolitane, l’arzigogolato superamento del bicameralismo perfetto).

Certamente è meglio poco che niente. Però sarebbe meglio un vero “meglio”, perché di “poco” in “poco” il nostro Stato si sta disgregando.

Dunque mentre non si può che essere lieti perché decolla la discussione su un tema fondamentale (quello delle forme di articolazione del potere statuale italiano), non è male che questa volta si cerchi di riflettere alla grande con una visione ispirata dalla nostra storia e dalle nostre grandi esigenze nazionali piuttosto che da quella delle toppe da mettere (con un attento occhio naturalmente a tutti i vari micro e macropoteri).

Insomma si dovrebbe cercare di introdurre un po’ di spirito costituente dentro le nostre valutazioni, un’idea di quale Stato nazionale possa aiutarci a vivere nei prossimi decenni.
Tutto ciò è ostacolato non solo dal fronte ultraconservatore dell’“abbiamo-la-più-bella-costituzione-del-mondo” ma anche dal motore innanzi tutto renziano del furbo-riformismo (facciamo solo le cose che sono sostenibili da una solida demagogia e attuabili con minimo sforzo: come dice Maria Elena Boschi “uffa!”, si è discusso già abbastanza negli ultimi quaranta anni!) e dal pensiero pauroso riformista (si consideri un Luciano Violante consapevole del groviglio del nostro sistema giudiziario ma che non vuole spaventare la propria “categoria” di riferimento o un Giorgio Napolitano che spiega come essenzialmente il solo “bicameralismo perfetto” fosse un’anomalia della nostra splendida costituzione: poi, naturalmente, si troverà un altro “solo” difetto, poi un altro ancora e così via paurosamente riformando).

Bene dunque la discussione ma che stia coi piedi ben fissi nella storia non nella cronaca: noi stiamo vivendo la fase finale dell’esplosione della parte ordinamentale della nostra costituzione, studiata con grandissimo realismo da chi la scrisse, dai colti (i Calamandrei, i Mortara e altri giganti del diritto) e dai politici (i De Gasperi, i Togliatti, i Dossetti, nonché i leader “intellettuali” come i Croce e gli Einaudi, e naturalmente i generali americani e inglesi che “assistevano” ai lavori) per evitare ritorni al fascismo o tragedie da guerra fredda avviata, attuata/materialmente modificata a strappi non sempre razionali (vedi regioni o diritto del lavoro fino all’espansione incontrollata del potere corporativo della magistratura, fino al “non detto” semipresidenzialismo degli anni Novanta) soprattutto da metà degli anni Sessanta in poi. Questo assetto con tutte le sue incongruenze è entrato in crisi (di cui il bicameralismo perfetto è stato solo un aspetto) dopo la fine della Guerra fredda (l’indispensabile sostegno storico-geopolitico del “sistema” ) ed è arrivato a una vera e propria esplosione con l’affermarsi dell’egemonismo-senza-visione della Germania sull’Unione.

Questo è il contesto nel quale si deve discutere anche la riforma delle regioni: una discussione che si concentri – come fa Zingaretti – sui risparmi (con 12 regioni si risparmiano 400 milioni di euro) può avere l’effetto di chi per spendere meno si fa fare un tetto di amianto invece che di tegole. Meno soldi ma ancor più veleno.

La riflessione deve certo tenere presenti anche i livelli insopportabili della nostra spesa pubblica ma deve partire dalla coscienza che la spesa pubblica aumenta innanzi tutto perché lo Stato è disordinato e se non si ragiona di un “nuovo ordine” che per essere razionale deve essere anche legittimato non solo dal consenso immediato dei cittadini ma anche dalla coerenza con la storia di una nazione: alla fine l’unica condizione in grado di determinare uno consenso di lunga durata non solo guidato dalla demagogia.

E’ proprio partendo da una simile riflessione che sia io sia anche Stefano Caldoro, sull’onda della riflessione leghistico-formigoniana, stiamo riproponendo il tema delle macroregioni: ma con un taglio non solo orizzontale, come propone per esempio Roberto Maroni (la Lombardia-Piemonte-Veneto; la Toscana-Emilia-Lazio; il Sud e le isole) ma più verticalizzato (in particolare una regione tirrenica e una adriatica che corrisponda in grande parte alle circoscrizioni europee).

In effetti storicamente e socio-economicamente il Veneto parla molto più all’Emilia (e in parte alle Marche) che alla Lombardia, così come Genova-Milano e Piemonte hanno una storia lotaringica che li lega a Nord Europa e Atlantico, mentre le radici etrusche dei municipi latini e toscani pesano ancora nella dorsiera tirrenica quanto quella bizantino-veneta su quella adriatica. Alla fine la storia italiana è molto una storia di porti (Genova, Venezia-Ancona, Pisa-poi Livorno, Napoli-Gioia Tauro-Palermo).

Con un vero spirito costituente si può così forse rimediare ai difetti dell’unificazione del 1861 (attuata in parte contro la stessa impostazione del genio politico di quella storia, Camillo Cavour) che hanno determinato uno stato con basi sociali più ristrette di quelle che hanno le altri grandi nazioni europee, aiutate da storie di più lungo periodo o da assetti federali come quelli della Germania, traditi solo durante il nazismo.

Questa mi sembra la via da intraprendere che però richiede di non percorrere i sentieri del micragno-riformismo (occuparsi solo della “spesa”) né quelli del furbo-riformismo e neppure quelli del riformismo pauroso (il riformismo che si vergogna di sé). Né naturalmente quelli dello sventato-riformismo che ha caratterizzato ampiamente l’egemonia berlusconiana sul centrodestra.

La riforma delle regioni può essere la via per “prendere” la riforma profonda dello Stato italiano dal lato giusto ma solo se si è consapevoli che “tutto si tiene”: è impossibile pensare un assetto decentrato del potere se non si riflette anche di verticalizzazione nelle scelte dell’esecutivo, sistema di bilanciamento del legislativo, comuni, province, magistratura, amministrazione dello Stato, sistema di decisioni europee. Si può anche cominciare da un punto ma si finirà nel pantano senza la visione dell’insieme.

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