Ad accelerare la decisione saudita ci sono state anche considerazioni strategiche di natura geopolitica. La casa di Saud è consapevole della sua fragilità e vive nel costante terrore di essere estromessa dal potere da un militare nasserista, qaidista o legato alla Fratellanza Musulmana o all’Isis. Teme anche rivolte fomentate dall’Iran dei suoi cittadini sciiti. Il caos yemenita è del resto un monito costante per Riyadh.
L’idea di un’America troppo autosufficiente nell’energia e quindi sempre più indifferente ai destini del Medio Oriente (e sempre più vicina all’Iran) proprio nel momento in cui l’Isis consolida il suo potere e pianifica di espanderlo verso sud è ancora più preoccupante della debolezza strutturale del greggio.
Visti dalla Casa Bianca, il panico saudita e il crollo del greggio sono stati vissuti come un’opportunità da sfruttare. Da una parte la possibilità di infliggere un colpo durissimo alla Russia, di tenersi definitivamente l’Ucraina, di eliminare il chavismo dal Venezuela e dall’America Latina, di ammorbidire ulteriormente l’Iran, di confermarsi iperpotenza, di chiudere la presidenza Obama con la benzina a metà prezzo e una ripresa dei consumi e
della fiducia.
Dall’altra, come prezzo da pagare, un rallentamento dell’espansione nell’estrazione di gas e petrolio non convenzionali (e un altro colpo al carbone) negli Stati Uniti. Rallentamento che va a colpire solo stati repubblicani e avvantaggia, con il gasolio da riscaldamento a basso prezzo, soprattutto stati democratici. Rallentamento che comunque non compromette l’espansione inarrestabile del settore energetico americano.