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La prossima crisi dell’eurozona

La prossima crisi dell’eurozona non sarà provocata dai dilemmi dell’euro o dagli esiti infausti del processo di unificazione dell’area monetaria. La prossima crisi dell’eurozona partirà da dove sta già covando: dal mercato finanziario, come d’altronde è già accaduto anche in passato.

Lo capisco mentre leggo l’assai utile rapporto sulla stabilità finanziaria della Bce, dove c’è scritto a un certo punto che “sotto diversi punti di vista, le condizioni finanziarie correnti ricordano quelle dell’era prima della crisi: bassi rendimenti, alta correlazione fra i mercati, e compressione degli spread sostenuta da un livello relativamente basso di volatilità e di prevedibili default per le aziende”.

Insomma: abbiamo fatto tanta strada per tornare al punto di partenza.

Ma in realtà c’è una differenza, sottolinea la Bce. “Mentre queste condizioni hanno condotto a una significativo aumento del leveraging del settore finanziario, nell’epoca prima della crisi, l’ambiente post-crisi è stato caratterizzato da un continuo processo di deleveraging bancario”. Differenza importante, a ben vedere, atteso che è stato proprio l’eccessivo indebitamento delle banche e il conseguente richiamo di molti capitali in patria, a provocare la crisi degli spread, del debito sovrano e, in ultimo, sollevato dubbi sulla tenuta della moneta.

Dovremmo essere più tranquilli, perciò. Le condizioni sono pericolose, ma le banche hanno dimostrato di aver imparato la lezione. E adesso c’è pure l’Unione bancaria a metter loro la mordacchia.

Senonché il pericolo si è semplicemente spostato altrove, manifestandosi così l’attitudine principe dei mercati finanziari a giocare a rimpiattino, facendo sempre credere, come ebbe a titolare un celebre libro, che “questa volta è diverso”.

La stessa Bce, infatti, individua la nuova fonte di vulnerabilità. Subito dopo aver notato che le banche stanno portando avanti il deleveraging, la Banca centrale sottolinea che però “allo stesso tempo i fondi di investimento, che incorporano rischi di leverage e di riscatto, sono cresciuti di dimensione insieme al loro ruolo di intermediazione creditizia”.

Non sono più le banche la preoccupazione della Bce, insomma. Sono i fondi di investimento.

Facile capire perché. Il settore dei fondi di investimento europei è raddoppiato di taglia, dal 2009 a oggi, raggiungendo un livello di asset, a settembre scorso, di oltre 10 trilioni di euro. Per il 99% si tratta di fondi aperti. Quindi assai sensibili alle domande di riscatto dei sottoscrittori, che contano sul presupposto di poter rientrare in qualunque momento dei suoi investimenti. Ciò presuppone che tali strumenti siano molto liquidi.

Il problema, o uno dei problemi, è che si osserva in queste entità una quota declinante di asset liquidi. Ciò comporta che il fondo possa avere problemi, in caso di boom di richieste di riscatti, replicando gli effetti disastrosi, il cosiddetto fire-sale, ossia la vendita disordinata di asset, tipici del finanziamento del debito a breve. E infatti molti asset manager hanno tranquillamente ammesso di aver un livello basso di risorse finanziarie in cassa, compensato però da linee di credito presso gli istituti bancari. Ed ecco perciò che il rischio, uscito dalla porta delle banche, ha finito col rientrare dalla finestra.

Peraltro le osservazioni empiriche hanno acclarato che i clienti di queste entità sono assai sensibili ai cambiamenti di prezzo e di orientamento di politica monetaria. Quindi si tratta di investitori instabili che molto facilmente possono destabilizzare l’industria.

Ad aggravare la circostanza si aggiunge che i fondi sono altamente interconnessi con le banche europee anche perché sono importanti acquirenti del loro debito. Quindi non solo si fanno mettere a disposizione linee di credito dalle banche, ma acquistano le loro obbligazioni. Sono sia debitori che creditori. Al momento si quota che abbiamo in pancia circa il 9% del totale delle obbligazioni emesse dalle banche europee, che equivalgono a circa 370 miliardi di prestiti concessi al settore bancario.

Tale quota è cresciuta parecchio da fine 2008 a oggi, ma assai meno di quanto sia cresciuta l’esposizione dei fondi verso il settore corporate non finanziario. Le imprese europee, insomma, stanno imparando a finanziarsi sul mercato dei capitali, piuttosto che su quello bancario. Al momento i fondi detengono il 25% del totale delle obbligazioni emesse dal settore corporate, dieci punti in più rispetto a fine 2008.

Altresì è cresciuta la quota di obbligazioni governative detenute dai fondi, anche se di poco, più o meno intorno al 12%.

Complessivamente perciò, i fondi europei hanno acquistato quasi il 50% delle obbligazioni emesse da banca, imprese e stati europei. “Di conseguenza – osserva la Bce – difficoltà in questo settore possono propagarsi rapidamente a settore bancario e a quello dell’economia reale”.

Ricapitolo: prima del 2008 l’instabilità è stata veicolata e trasmessa dalle banche. Oggi potrebbe partire dai fondi di investimento che, di fatto, dal 2009 in poi, hanno iniziato a sostituire le banche alimentando lo straordinario sviluppo dello shadow banking europeo, che ormai quota asset per quasi venti trilioni di euro.

Da dove pensate comincerà la nuova crisi?

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