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Lo spettro del ’29 sulla Borsa americana

Come tutto ciò che è leggendario, magari perché poco conosciuto, lo spauracchio del 1929, quando le borse franarono, sgretolandosi la montagna di capitale fittizio che le aveva alimentate, torna a far capolino di tanto in tanto fra gli analisti economici e segnatamente fra i regolatori, che tali boom e burst dovrebbero monitorare e prevenire, quasi sempre con scarso successo.

La terribile crisi iniziata nell’ottobre nero del ’29, peraltro, è probabilmente quella più evocata dal 2007 a oggi. Non a caso. Ciò che è seguito al 2007 ha ricordato a molti ciò che successe all’epoca.

Diverso è tuttavia il pensiero che sta iniziando ad alimentarsi fra gli osservatori che scrutano indici e tabelle. Ossia che la crisi del 2007 sia stata, in qualche modo, la preparazione a quella futura, per non dire imminente, che sarà assai peggiore di quella che ci stiamo lasciando alle spalle.

Per evitare di finire iscritto d’ufficio al partito dei gufi, malgrado sia personalmente convinto che ci stiamo avviando verso il redde rationem, lascerò la parola alla Bce, che di mestiere, fra le altre cose, analizza i rischi del sistema finanziario globale che sommarizza nel suo rapporto sulla stabilità finanziaria.

Qui ho scovato un approfondimento che ho trovato assai utile perché fa il punto sul livello, da molti giudicato esagerato, raggiunto dalla borsa americana che ormai da quattro anni, ossia da quando la Fed (casualmente?) ha iniziato il suo quantitative easing, cresce a rotta di collo infrangendo record su record, in una crescente euforia di famiglie, che vedono aumentare la propria ricchezza finanziaria e quindi diminuire i propri debiti, imprese, che si finanziano sempre più in borsa, e banche e finanzieri vari, che da tale boom traggono cospicui nutrimenti visto che nell’ideale corsa all’oro della borsa americana loro vendono le palette e i setacci.

La Bce nota che mentre nell’eurozona, vista in aggregato, non ci sono segni di sopravvalutazioni borsistiche, calcolate con l’indice dei prezzi e del rapporto prezzo/guadagni, alcuni mercati nazionali sono al di sopra della loro media storica.

Ma sono gli Stati Uniti quelli che preoccupano di più. Mentre l’Euro Stoxx 500 quota sta ancora circa il 27% sotto il picco del 2007 (indice 73 nel 2014 a fronte di un indice 100 nel 2007), l’indice americano S&P 500 mostra di essere arrivato ben il 44% sopra il picco del 2007, Che poi non era proprio un livello da mammolette.

Per apprezzare questo argomento, bisogna utilizzare gli strumenti di misurazione più comuni in uso nell’analisi finanziaria come il CAPE, che sta per cyclically adjusted price/earnings, e il Tobin’s Q, ossia il rapporto tra il valore di mercato di un’impresa e il costo di rimpiazzo del suo stock di capitale. Detto in parole più comprensibili, la Q di Tobin misura il rapporto fra quanto costerebbe l’impresa se volessi acquistarla sul mercato finanziario e quanto costerebbe se si volesse riacquistarla sul mercato dei beni. Una di quelle meravigliose supercazzole che fanno la gioia degli economisti.

Tobin elaborò questo indicatore per valutare quanto fosse conveniente per un’impresa fare investimenti, ma questo indicatore può anche essere interpretato come uno strumento per vedere se un’impresa ha un valore borsistico sopravvalutato. Se Q infatti è maggiore di uno, ciò implica che il valore borsistico del capitale è maggiore del suo valore reale.

Nel caso americano entrambi i segnali “iniziano a essere tesi”, osserva la Bce, visto che “sono molto sopra la loro media di lungo periodo”.

In dettaglio, il CAPE dello S&P 500 è superiore per oltre il 60% della media storica. Un livello che è stato raggiunto solo in tre occasioni nei 188 anni di vita dell’indice: nel 1929, tanto per cominciare, e poi nel 1999, quandò poi scoppiò la bolla di internet, e quindi nel 2007. livello dal quale l’indice si contrasse del 50%, arrivando a 50 (su base 100 2007) nel 2009, per poi iniziare indefesso la sua risalita.

Oggi, lo ricordo, siamo a 144, ben oltre quindi il livello 2007 che già era uno di quei livelli storici a partire dai quali si è originato il crollo.

Quanto alla Q di Tobin, ha superato il livello di equilibrio pari a uno, quindi probabile sopravvalutazione, per le imprese non finanziarie per la seconda volta nella sua storia iniziata 69 anni fa. L’unico precedente registrato è il periodo che precedette l’esplosione della bolla internet, con lo sterminio delle dot com cresciute a pane e debito insensato. Siamo quindi nella casistica già esplorata nell’ambito del CAPE.

Quindi ci troviamo in una situazione in cui entrambi gli indici sono tesi come quando accadde in occasione di alcuni disastri finanziari, alcuni dei quali recenti. E se la storia certo non si ripete, la statistica delle probabilità potrebbe giocare a sfavore del mercato borsistico americano.

Anche perché c’è un’altra circostanza che preoccupa i regolatori. “Al crescere di questi indicatori, anche l’uso del leverage sembra essere in crescita”. Ossia dell’uso spinto del debito per fare soldi.

La riflessione segue l’analisi sul finanziamento dei margini, che mostra “un grande aumento nell’uso del leverage per comprare azioni americane”. Addirittura “il rally nell’S&P 500 ha coinciso con un notevole incremento del finanziamento dei margini, che è cresciuto del 350% negli anni recenti, raggiungendo un livello record in termini reali”.

Chiunque conosca, anche solo per sentito dire, la storia del boom e del crash del ’29 sa bene il ruolo giocato dai finanziamenti a breve per comprare azioni su pegno.

Quest’ultima circostanza completa il quadro: abbiamo un mercato borsistico teso allo spasimo che basa sulla cheap money il suo stato di salute. Sappiamo pure che è già successo in passato.

E sappiamo pure com’è finita.

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