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L’ultima della finanza: il mercato del rischio, ovvero i CRT

Non mi stupisce scoprire che le menti astruse dei finanzieri facciano mercato di ogni cosa: la storia stessa testimonia della loro attitudine a portare il calcolo, per trarre profitto, in qualunque ambito umano. Né mi sorprende la loro indiscutibile genialità a eludere per vie traverse, le maglie della regolazione, riuscendo pure a spuntare rendimenti a due cifre.

Rimango a bocca aperta, tuttavia, nel notare quanto il copione si ripeta inesausto ormai da decenni, per non dire da secoli, e mi dispera il pensiero che a quanto pare siamo costretti ad andare avanti così, fino a quando non succederà qualcosa di autenticamente terribile.

Ma poi mi dico che non devo esagerare. In fondo la storia della finanza altro non è che il tentativo, pure questo inesausto, di far soldi coi soldi, che già dai tempi dei greci di Pericle creava scompensi, polemiche e discussioni.

Il fatto che si vada avanti così da tutto questo tempo dovrebbe rassicurarmi, mi dico, per il semplice fatto che siamo andati avanti lo stesso. Quindi a meno di rivoluzioni della nostra costituzione spirituale – poiché quella materiale si è dimostrata impotente – così andremo avanti ancora a lungo, lasciando ai moralisti l’ingrato compito di ricordare quanto gravi e persistenti possano essere i danni collaterali della hybris finanziaria. Ossia provocati dal loro/nostro desiderio di ricchezza purchéssia.

Quanto a me, oscuro osservatore, mi contento di notare l’ennesimo ritrovato dei finanzieri spericolati, di cui trovo traccia nell’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria della Bce, in poche righe, ma pregne.

In particolare in uno striminzito paragrafetto, la Bce nota che “la domanda per prodotti (finanziari, ndr) complessi ad alto rendimento è evidente, con una rinascita dei CLOs, particolarmente negli Stati Uniti, e l’emergere di capital relief trades, CRTs”.

Suonandomi ignoto l’acronimo CRT, ho compreso che dovevo correre ad aggiornare la mia personalissima tassonomia delle astruserie finanziarie.

Dei CLOs, infatti, sapevo tutto ciò che mi interessava sapere, ossia che sono i mitici Collateral loan obligation, quindi obbligazioni confezionate con dentro un pacchetto di prestiti più o meno rischiosi fatti di solito alle imprese, che hanno conquistato la celebrità dopo il disastro del 2007-08 e poi sono finite nel cantuccio di solito riservato alla spazzatura. Vendere debiti che hanno sotto pezzetti di altri debiti era stata sicuramente un’innovazione straordinaria.

Di nuovo c’è solo che hanno riguadagnato la prima linea. La Bce osserva che “le emissioni sono cresciute significativamente, superando il picco pre-crisi negli Stati Uniti”.

Nell’eurozona sono cresciute pure, ma ancora siamo lontani dal livello del 2007. Forse anche perché da noi ci si sta organizzando per comprare ABS, ossia asset-backed securities, che sono diverse dai CLOs perché di solito hanno sotto asset più sostanziosi. Di solito.

Ripenso trasognato alla grida di sdegno che nel 2009 risuonavano nei consessi internazionali, guardando all’indice dove erano stati affissi tutti questi prodotti strutturati mentre dicevano: giammai un’altra volta. E mi ritrovo oggi a leggere il contrario, con ciò dovendosi esaurire ogni ragionevole ipotesi circa il nostro buon senso.

Poi mi sorge l’uzzolo di capire meglio cosa siano questi CRT, dei quali la Bce dice soltanto che con queste transazioni “una banca paga una terza parte per assumersi una quota di rischio associata all’esposizione dei suoi asset”. E aggiunge che nel corso dello scorso anno ne sono state osservate alcune.

In pratica, con un CRT una banca paga un qualunque intermediario per comprare una quota di un suo rischio. Vendere il rischio, dopo aver provato a farlo scomparire cartolarizzandolo, come prescriveva il leggendario modello (fallito) dell’originate-to-distribute, mi sembra l’ennesimo colpo di genio.

Provo a spiegarmi meglio. Una banca ha in bilancio un asset che porta con sé un’esposizione – magari un prestito – e quindi un rischio. Questo rischio deve essere quotato e generare quindi un accantonamento prudenziale nel capitale, come prevedono le normative di regolazione. Ma se io lo esternalizzo, pagando una commissione al soggetto che se lo carica, il rischio e l’accantonamento corrispondente spariscono per magia dal mio bilancio. Che quindi mi farà apparire come un operatore meglio capitalizzato e persino prudente, per la gioia dei regolatori. Inutile dire che se il rischio che ho venduto dovesse generare una perdita, dovrà caricarsela il soggetto che ha incassato le commissioni.

Mentalmente mi congratulo con chi ha inventato il nome di questi affari: capital relief trade, che potremmo tradurre malamente come commercio di sollievo e/o soccorso di capitale. Il che è molto suggestivo, ne converrete.

In una nota a corpo sette del rapporto Bce leggo che le operazioni di CRT a cui fa riferimento sono la vendita di prestiti su moli fatta da Citigroup a Blackstones, la vendita di un portafoglio multiplo di prestiti fatti da Unicredit a Barclay, e la vendita di un altro portafoglio di crediti al commercio fatte da Standard Chartered a non si sa bene chi.

La vendita dei prestiti su noli mi accende una lampadina. Mi torna in mente un articolo che avevo scorso senza farci caso più di un anno fa e opportunamente dimenticato, per quanto mi era sembrato astruso. Lo rileggo e finalmente comprendo la magia dei CRT: i soggetti che comprano i rischi spuntano commissioni che possono arrivare al 15% e oltre.

L’articolo racconta anche della transazione fra Citigroup e Blackstone, messa in nota dalla Bce, spiegando che all’uopo era stata utilizzato una società veicolo dislocata in Irlanda. Il solito vecchio schema, mi dico. Con l’aggravante che spesso i soggetti che comprano questi rischi sono fondi, magari fondi pensione. Chissà se l’insegnante americana o tedesca che versa i sui contributi al fondo tal dei tali immagina l’uso che fanno i gestori dei suoi soldi. Ed è certamente in quest’ignavia che individuo la radice del peccato capitale di molti, quando non evidente complicità per fame di rendimenti, che finisce sempre, in un modo o nell’altro, per causare disastri.

Ma soprattutto mi colpisce la dichiarazione di un banchiere americano, citato nell’articolo: “Questi scambi sono una buona cosa – dice – il miglior modo per proteggere le banche contro questi rischi è spostarli dal sistema bancario a istituzioni finanziarie più sane. Nessuno effettuerà un bail out delle compagnie coinvolte se questi scambi andranno male”.

La qualcosa è insieme vera e falsa. Vera perché ammette che le banche sono costituzionalmente poco sane, proprio in conseguenza di come sono immaginate. Falsa perché abbiamo già visto con quanta furia siano state salvate alcune “istituzioni sane”, quindi non bancarie, durante la crisi del 2007, con i soldi pubblici.

Ma d’altronde nessuno chiederà mai il conto finché non sarà troppo tardi.

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