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Mafia e corruzione. Che cosa (non) deve fare Renzi

Grazie all’autorizzazione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo il commento di Domenico Cacopardo comparso sul quotidiano Italia Oggi del gruppo Class Editori.

E così Matteo Renzi, che Giorgio Napolitano ha nominato primo ministro, dopo che i Pd, alla disperazione, l’avevano scelto come loro capo, ha partorito l’ennesima dichiarazione roboante, con scarsi effetti pratici. Ci riferiamo all’annunciato provvedimento di modifica del codice penale in materia di corruzione: si tratta dell’innalzamento della pena minima, dell’allungamento del periodo di prescrizione, di procedure facilitate per la confisca dei beni dei corrotti e, infine, della restituzione del maltolto (gran parte delle «nove» misure sono comprese in disegni di legge già in Parlamento).

Non si disarmano i malfattori, si aggravano le pene. Un ennesimo ampio lancio di polvere, quindi, per gli occhi degli italiani, una cortina di parole che rimangono intorno alla questione, senza incidere in modo sostanziale sui meccanismi che la determinano.

Non si affrontano i due nodi fondamentali che hanno consentito lo svilupparsi di questo male endemico, sino a rendere il Paese infetto da una criminalità fondata su tre solide gambe: le mafie, l’evasione fiscale, la corruzione.

Il primo nodo è il sistema giudiziario e il modo di lavorare della magistratura. Il reato viene commesso così frequentemente perché il rischio di essere «beccati» è remoto ed è «conveniente» commetterlo. Inoltre, s’è tanto parlato dell’introduzione del contrasto di interesse tra corruttore e corrotto, ma non se n’è vista traccia significativa. C’è da sperare che, nella sua sintesi sciabolatoria, Renzi abbia dimenticato di chiarire quali aggravamenti di pena ci sono per i corruttori e per le aziende di cui sono espressione. Il caso Mose ne è esempio incontestabile: ci sono voluti più di sei mesi (in sei mesi si possono fare tante, troppo cose) perché il Consorzio Venezia Nuova fosse commissariato, ma solo esso, non il Magistrato alle acque né le imprese socie del consorzio. E, se commissariamento c’è stato, dobbiamo ringraziare Raffaele Cantone che l’ha, dopo quattro mesi, chiesto, non il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi che, dopo qualche timida esternazione, si è abbandonato al letargo più totale. Ci si è poi accontentati della restituzione di 20 milioni di euro e, sino a ora, rinunciato alla «due diligence» che avrebbe quantificato le ruberie. Temo, peraltro, che il provvedimento che sarà approvato oggi, sia proprio farina del sacco del commissario anticorruzione, votato, per formazione professionale, a vedere il diritto penale (e la repressione) come unico possibile argine alla corruzione ch’è dilagata e sta dilagando.

Il secondo nodo, del tutto irrisolto, riguarda le modalità di affidamento di lavori e forniture da parte delle amministrazioni dello Stato. È lì che occorrerebbe radicalmente intervenire, La questione è che la normativa degli appalti e delle forniture, ancorché derivata da norme europee, è funzionale alle pessime intenzioni di chi vuol truccare le gare.

Nei «tender» internazionali (quando privi di interessi illeciti) i due elementi fondamentali che garantiscono la correttezza delle procedure sono: il massimo ribasso e la garanzia integrale del risultato. Certo, ci vuole una selezione tra coloro che hanno i titoli tecnici e finanziari. Ma, una volta scelti i concorrenti, il procedimento deve essere aperto al massimo ribasso purché assistito da una fidejussione bancaria integrale a prima chiamata. Qui, da noi, viene messa in campo una serie di elementi («dichiarati» a tutela dell’Amministrazione, ma truffaldine vie d’uscita) che determinano la più ampia discrezionalità di scelta da parte delle commissioni, definite sempre dai politici per conto dei personaggi influenti che li manovrano. E poi, la garanzia è limitata, al massimo il 20% dell’opera, sicché un’azienda che ha capacità 100, può acquisire 5 lavori del valore di 100, prestando 5 garanzie di 20. Se fosse costretta a garantire tutta l’opera, sarebbe stretta da una camicia contrattuale che la spingerebbe a far presto, per chiudere bene, consegnare e partecipare a un nuovo «tender».

Nella finanziaria del 1986, il ministro del Tesoro Gianni Goria mi chiese di studiare un sistema per incentivare l’ultimazione delle opere nei termini e impedire il lievitare delle revisioni dei prezzi. Scrissi allora la norma sul «prezzo chiuso» che prevedeva un «premio» di ultimazione nei termini e l’impossibilità di evocare la revisione prezzi. Il nuovo istituto non ebbe applicazione, perché avrebbe tagliato in modo radicale il fatturato criminale degli uomini che si occupavano degli appalti. Renzi e i suoi consiglieri non hanno compreso che in questo paese la repressione funziona poco perché funziona poco la magistratura. Gli aggravamenti di pena avrebbero un senso positivo solo se fossero accompagnati da un cambiamento radicale delle procedure per appalti e forniture.Ma ciò sembra non interessare al premier, votato più all’annuncio eclatante che all’efficacia dell’azione del governo. Qualcuno, un giorno, nelle urne elettorali, se ne renderà conto.



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