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Ecco come Bergoglio ha modificato i rapporti fra Vaticano e politica italiana

La ventata di freschezza evangelica di papa Bergoglio ha spazzato via con una rapidità impressionante il clima torbido e velenoso che aveva ammorbato la fase conclusiva del pontificato di Benedetto XVI e l’aveva convinto che fossero necessarie caratteristiche d’animo e di corpo che l’anziano teologo sentiva di non possedere. Non c’è dubbio – ne avevo indicato alcuni significati dal punto di vista storico in un saggio uscito per Einaudi col titolo Quel che resta di Dio – che il disordine sistemico del triennio conclusivo del papato di Benedetto avesse dimensioni globali: ma esso non di meno si presentava non solo come sintomi ma anche come questione profondamente italiana.

L’uso giornalistico di attribuire quella sequenza di incidenti al confidente e amico leale che Ratzinger aveva posto a capo della segreteria di Stato non era una analisi, ma parte d’un problema. Che coinvolgeva il Belpaese perché il conflitto scatenato da e attorno a figure – chiave del sistema di governo della Cei antecedente le scelte del cardinale Tarcisio Bertone, la preparazione remota nel sistema giornalistico italiano di posizioni coperte da cui colpire avversari veri o presunti, il sistema di confidenziali calunnie e maldicenze filtrate ad arte che rendeva fertile il sistema dei media a ogni tipo di operazioni denigratorie, vedeva nell’Italia un epicentro.

È evidente che elezioni episcopali strabilianti, spostamenti ispirati a logiche di carriera coltivate con cura, ascese volte a tacitare situazioni imbarazzanti, stili di dossieraggio che talora travolgevano chi li aveva alimentati, non erano una peculiarità italiana. Ma quando hanno superato la soglia di guardia e hanno accelerato la fine del papato europeo è stata alla dialettica ruvida dentro l’Italia e dentro la Curia che tutti hanno guardato, come se fosse quella polarità la causa di mali, più lunghi e profondi di quanto non si volesse credere.

Di certo il disegno ruiniano di una Chiesa che delega al proprio presidente la negoziazione con la politica italiana e toglie ai politici cattolici la dignità necessaria a mediare era formalmente finito nel 2007, quando proprio Ratzinger e Bertone avevano liquidato quell’esperienza e avviato un tentativo di transizione che allentasse i legami col mondo berlusconiano giunto al suo capilinea etico. Eppure, per sottovalutazione o ingenuità, l’abitudine mentale a pensare la politica e la politica di quell’area come interlocutore capace di garantire una visibilità e una vocalità di cui quella Chiesa sentiva il bisogno non era destinata a tramontare. Uscire da quella stagione richiedeva un diverso stile cristiano, che non era a portata di mano. La stessa rinunzia di Benedetto XVI non la lasciava presagire: anzi, la voce che voleva il cardinale Angelo Scola in pole position per la successione, non era né un complotto né una vanità, ma la logica conseguenza di chi pensava che gli sporchissimi panni italiani andassero lavati in casa e che solo un italiano capace di dominare intellettualmente la macchina curiale potesse riportare ordine là dove si intravvedeva una suprema confusione.

Com’è noto, quel disegno è franato alla prima votazione del conclave, dove l’arcivescovo di Milano ha toccato con mano che promesse elettorali di cui forse s’era fidato, erano svanite in tatticismi inutili. Il corposo antirömische Affekt che aveva dominato le congregazioni generali s’era infatti saldato con un pregiudizio anti-italiano (Scola) e anticuriale (Bertone) che vedeva nell’esclusione degli italiani dal papato una necessità assoluta. Su questo punto s’è saldata quella che nelle tre votazioni dopo è diventata la maggioranza bergogliana e che alla quarta ha superato la soglia dei 2/3, una soglia difficile per chi è abituato a pensare al 51% delle democrazie sane e al 40% di quelle deboli come legittimazione del potere.

Francesco ha dunque fatto sua anche la parte italiana del capitolato invisibile che ne ha guidato l’elezione: ma la sua “politica italiana” non è stata dettata da quella maggioranza. Essa è stata del tutto aderente al suo stile di prete santo prestato al papato, di uomo risolto scaraventato sulla scena mediatica, di uomo di governo che non ha rinunziato alle leve della durezza dolce del superiore.

Le estromissioni dalla curia – dal cardinal Piacenza al cardinal Bertone – sono state lente, non stizzose e non si sono ispirate all’antico uso del promoveatur. Anzi, una del 2014 ha imposto una più rigida o automatica applicazione dei canoni sulla cessazione per età dagli incarichi che di fatto esclude ogni possibile prolungamento di antiche influenze. Il messaggio pubblico dato in diverse circostanze – dall’assenza plateale al concerto organizzato da monsignor Fisichella fino all’esclusione dei cardinal Ruini e Bertone dalla lista dei suoi nominati al sinodo sulla famiglia, al quale invece ha invitato il più anziano cardinal Sodano – è stato inequivocabile. La relazione con il mondo politico italiano, di fatto ha continuato ad avere i riferimenti di prima: per le relazioni istituzionali il sostituto monsignor Angelo Becciu, per quelle informali l’ex nunzio in Italia e presidente del governatorato cardinale Giuseppe Bertello, che era stato un perno del conclave.

Ma a tutti è risultato chiaro che il clima era cambiato e che le questioni non negoziabili da parte vaticana erano diventate altre rispetto alla lista di temi eticamente sensibili: erano il vangelo dei poveri e la teologia della liberazione dalla corruzione che il papa ha ripetuto senza esitazioni quando un’affollata liturgia alla quale il cappellano della Camera aveva invitato i parlamentari è stata ingenuamente fissata la mattina in cui si leggeva un brano del vangelo particolarmente duro verso la corrente dei farisei.

A monitorare e dirigere questo nuovo sistema di relazioni Francesco ha per ora messo due uomini suoi e nuovi.

Il segretario di Stato, cardinal Pietro Parolin, uomo che discende dalla lunga e lungimirante “dinastia” diplomatica che passa da Rampolla a Montini a Casaroli a Silvestrini; allontanato da Roma ai tempi di Bertone, Parolin è tornato per seguire un’agenda asiatica di cui è il miglior esperto, ma anche per gestire uno stile rinnovato di relazioni con una politica italiana nella quale, dopo la facile “scalata” renziana, si sono concentrati attorno al potere di governo del Paese tutte le componenti culturali della chiesa italiana. Pur con qualche forzatura, infatti, si potrebbe dire che tramite i nomi a cui si ispirano per formazione o per storia, nel governo Renzi ci sono gli eredi di La Pira come Renzi stesso e Pistelli, di Dossetti come Delrio, di Giussani come Lupi, dell’Azione Cattolica come Martina, di Sant’Egidio con Giro, del cardinal Ferrari come Alfano, di Prodi come Bressa e Gozi, dell’Agesci come Pinotti, dei movimenti mariani con Madia, di Ambrosanio come Bocci, della Cisl come di Biffi come Galletti.

Un’aggregazione che ha riunificato tutto ciò che Ruini aveva disperso: ma lo ha fatto attorno a un disegno che rifiuta il disegno, al progetto di non avere un progetto se non quello di una rivoluzione che si modula secondo le circostanze. Specie sulle cinque questioni chiave che Francesco ha posto coi suoi viaggi: la pace internazionale, la politica dell’immigrazione, la liberazione dalla criminalità, l’occupazione, le famiglie concrete come corpo intermedio.

In questo quadro si colloca anche l’altra nomina, relativa alla chiesa italiana. Affidata con un ampio mandato a monsignor Nunzio Galantino, studioso della facoltà teologica di Napoli e promosso vescovo di una piccolissima diocesi della Calabria. Con Galantino, Bergoglio – è impossibile che sia un caso, è difficile stabilire chi gli abbia suggerito o indicato questo modello – ha riportato la Cei al modello Bartoletti, il primo segretario generale scelto da Paolo VI e morto d’infarto dopo un breve mandato. Cioè, con un presidente che alla fine – avendo i vescovi scelto di non eleggerlo, come si fa in tutto il mondo, per riguardo alla funzione di primate d’Italia che il vescovo di Roma esercita – ha assunto una funzione di rappresentanza e con un segretario che esprime, per la forza del mandato papale e per la sintonia di stile con Francesco, la linea politica interna (valorizzazione delle conferenze regionali) e quella generale (dialogo coi ministri e col governo in modo distinto).

Il governo Renzi, in quasi un anno, non ha ancora preso tutte le misure di questa doppia scelta: un po’ per la antica illusione che avere molte “politiche ecclesiastiche” sia meglio che averne una; un po’ per la traslazione a questo ambito della diffidenza verso autocertificate “competenze scientifiche” che in tanti campi avevano dato modesta prova di sé. Ne sono venuti così momenti di simpatia – come il tardivo pranzo per festeggiare i cardinali italiani a mesi dal concistoro – e momenti bruschi come la battuta (“erano abituati male”) con la quale il presidente del Consiglio ha stigmatizzato la delusione del presidente della Cei, che era stato ascoltato solo dal sottosegretario alle questioni complicate Luca Lotti. Altre questioni serie, come quelle dell’ospedale Gemelli, sono stata trattate dal sottosegretario Delrio e hanno richiesto tempo per essere messe a fuoco nella loro effettiva portata. I problemi della scuola paritaria, gestite con attenzione dal ministro Giannini, sono però state presentate in modo semplicistico nel documento programmatico sulla “buona scuola”. L’iscrizione in agenda della legge sulla libertà religiosa che il papa ha fatto con la visita ai pentecostali di Caserta, non è stata percepita né dal Parlamento e né dal Viminale.

Tutte cose che troveranno un equilibrio con un reciproco addomesticamento, dopo che, forse dai ranghi della diplomazia pontificia, sarà venuto un nuovo sostituto; dopo che le grandi nomine che attendono il paese nell’arco di pochi anni (Palermo, Bologna, Napoli, Milano, Reggio Calabria, Catania, Venezia) daranno una fisionomia bergogliana alla chiesa italiana; ma specialmente dopo che si sarà risolto il problema dell’avvicendamento al Quirinale, vero punto critico dal punto di vista vaticano.

Dopo tre governi salutati con toni messianici, due dei quali crollati nella fiducia pubblica e parlamentare nell’arco di tre trimestri, la tenuta politica del renzismo dipende solo da lui: non è questione che si possa ridurre né al gradimento, né al sentiment dei social e per sé neppure alla misura del successo elettorale con cui il Pd si candida a essere partito di maggioranza relativa di un riorganizzato sistema politico. Renzi e il suo partito infatti devono decidere se darsi una fisionomia (in senso tecnico e non ideologico) “democristiana”: cioè un partito che risolve le questioni in direzione e non in un Parlamento bloccato da una conventio ad excludendum a geometria variabile che rende impossibile ogni ricambio. Se lo facesse, se lo farà, è possibile che si trovi innanzi in qualche tempo la corruzione e l’infiltrazione mafiosa che una Dc stupidamente fiera di non avere alternative non poté per questo respingere. Oppure dare al suo esperimento politico una fisionomia laburista, che cerca nelle Camere equilibri possibili su un’agenda politica e coltiva un’alternativa non per sapere la sera dopo le elezioni chi governa, ma per sapere la sera prima delle elezioni che possono governare anche gli altri – e sperare così di tenere fuori dalla porta del Paese e del governo due malanni storici della storia italiana.

La chiesa di Bergoglio e il papato di Francesco sanno bene che su questo non ci sono margini di influenza. Qualunque cosa il Pd decida però, è evidente che la “costituzione materiale” ha già dato al capo dello Stato una funzione equilibratrice e stabilizzatrice che proprio il dinamismo renziano rende ancora più vitale. Anche qui non ci sono eccessivi margini di influenza, ancorché sia evidente che, con tutto il rispetto per il sesso dei candidati al Quirinale, sarà più rilevante la loro collocazione rispetto al deficit di credibilità internazionale del Paese, alla crisi della rappresentanza politica che ha travolto partiti e movimenti, ai pericoli di ordine pubblico che disagio sociale, criminalità e terrorismo stanno producendo, e anche al rapporto con una Santa Sede che quanto meno incrementa la nostra risonanza sulla scena globale.

Ed è dunque lì, su quel passaggio, che la Santa Sede di Francesco attende di capire cosa accadrà: se cioè innovando rispetto alla tradizione si cercherà un capo dello Stato fra grandi leader di statura internazionale; o se, fedeli a un’usanza più consolidata, si cercherà fra i più nobili profili delle seconde file; o se cercherà un exploit, che di fatto equivarrebbe alla scelta usuale. Ed è da queste decisioni del leader del partito di maggioranza relativa e del governo, che molto dipenderà del futuro. Da una visione più europea dell’Italia la Santa Sede potrebbe molto giovarsi: dopo l’antieuropeismo mite di Benedetto XVI, attutito solo dal prestigio che hanno avuto ai suoi occhi Mario Monti e Giorgio Napolitano, l’atteggiamento non-europeista di Francesco sta misurandosi con questioni molto serie, che la cronaca dell’Ucraina e il ricordo della Grande Guerra portano sotto gli occhi di tutti: e questa sarebbe garantita dalla salita palazzo d’estate di Pio IX da una figura capace di rappresentare se non un stella fissa, almeno un chiodo sicuro del sistema.

Perché – questo è chiaro – il papato di Francesco viene dalla fine del mondo in un mondo che è quello globale, non quello italiano. E se l’Italia avesse bisogno di trovare nel papa un punto di stabilità – come fu nel 1917 con Benedetto XV, con Pio XII dopo l’8 settembre nel caso Moro con Paolo VI – non sarà il papato argentino a fornirlo: la ventata di freschezza evangelica di papa Bergoglio ha spazzato via le maleodoranti nebbie della chiesa. All’Italia ci pensino gli italiani, cattolici e non. Se sono capaci.

Alberto Melloni è storico e studioso di storia del cristianesimo

Articolo tratto dal numero 98 (Dicembre 2014) della rivista Formiche

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