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Perché i Popolari di Mauro non hanno aderito all’Area Popolare di Ncd e Udc

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Nel 1918, nel corso della Prima Guerra Mondiale, a distanza di un solo anno dal suo sbarco in Francia a sostegno delle forze dell’Intesa, il generale John J. Pershing, comandante della spedizione americana, rispondendo alle richieste del suo collega francese di unificare il comando delle reciproche truppe, fece sua la parabola di Gesù: “Non si versa del vino nuovo in un otre vecchio, perché l’otre si rompe. Né si versa del vino vecchio in un otre nuovo, perché il vino si guasta”.
Una risposta scaturita da un giudizio assolutamente negativo sullo stato e le strategie dell’armata francese condotte dall’inizio della Guerra fino al suo arrivo in Europa. Fu così che il contingente americano, gestito in autonomia, sommò vittorie su vittorie fino alla resa tedesca.

Noi Popolari per l’Italia guidati dal senatore Mario Mauro abbiamo analogamente preferito riprendere una nostra autonomia nei confronti di Ncd e Udc che hanno deciso di fondere formalmente i relativi gruppi parlamentari in un’unica realtà. Le ragioni? Non certo un diniego a renderci reciprocamente alternativi a Renzi, aderente peraltro al Pse, ma una diversa strategia di comportamento nei confronti del premier, da noi ritenuto sinora assolutamente insufficiente nella soluzione dei reali problemi dell’Italia. Siamo pronti dunque a scindere le nostre responsabilità se le cose non dovessero cambiare nel verso giusto per uscire effettivamente dalla crisi.
Congiungere i gruppi parlamentari senza far precedere questo atto dalla realizzazione di un’unica realtà politica fuori dal palazzo, in grado di dare risposte adeguate a cittadini sempre più colpiti dall’aumento della spesa pubblica, dalla crescita della disoccupazione soprattutto giovanile, dalla risalita dello spread, dalla progressiva riduzione del valore dell’euro, eccetera, è stato un errore strategico di enorme peso.

In questa visione di assoluta autonomia, nel corso della recente conferenza organizzativa del partito, abbiamo lanciato la candidatura a sindaco di Roma del generale Domenico Rossi, sottosegretario alla Difesa. Una candidatura in contrasto con un terrificante e desolante quadro politico, amministrativo e morale nella Capitale. Una candidatura oggi più che mai necessaria per puntare su un uomo che con la sua storia personale e con la sua carriera militare incarna le doti necessarie alla ripresa dell’immagine del Campidoglio: professionalità, ordine, trasparenza, legalità, efficienza.

Vogliamo che i cittadini possano finalmente avere la possibilità di sostenere chi non ha avuto responsabilità passate, che sia romano non di adozione, che non sia espressione di obsoleti schemi partitici definiti di centrodestra o centrosinistra. Basta con le nomenclature di partito, basta con le novità estemporanee, basta con personaggi meritevoli solo di essere protagonisti delle puntate di “Beautiful”, basta con chi ha esercitato professioni imprenditoriali che sono cosa diversa rispetto a quell’esperienza politica o amministrativa così necessaria per il buon funzionamento di un consiglio comunale autorevole come quello di Roma.

In qualunque nostro impegno chiederemo che siano resi pubblici i redditi personali, i contributi elettorali ricevuti, le spese sostenute. Mai più cartelloni 6 metri per 6 o affollatissime cene di presunti sostenitori. La nostra sarà una campagna porta a porta per recuperare la fiducia della gente, per dimostrare che si vuole essere un riferimento sul territorio permanente ed effettivo, pronto all’ascolto, capace di indicare soluzioni possibili, serie, concrete.
Potremo vincere? Forse. Sicuramente avremo offerto un nostro contributo alla ripresa dell’autorevolezza della politica. E la cosa, di questi tempi, non è di poco conto.

Potito Salatto
è vicepresidente nazionale dei Popolari per l’Italia



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