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Ecco perché Putin molla il South Stream

Il leone ferito reagisce. Sanzionata dall’Europa per l’Ucraina, incalzata dagli Stati Uniti anche per lo shale gas, con la decisione dell’Opec che di sicuro non la entusiasma, e con Eni sempre più rivolta a Ovest, la Russia decide di reagire e decreta l’abbandono del progetto South Stream per lanciare un altro gasdotto in Turchia che arriverà fino al confine greco.

L’ANNUNCIO

Vladimir Putin sfida Bruxelles e minaccia di cancellare il progetto South Stream che prevede la realizzazione di un gasdotto in grado di collegare direttamente Russia e Unione Europea aggirando l’Ucraina. Secondo il presidente russo “l’Ue continua a ostacolare il progetto. Se prosegue porteremo altrove il nostro gas”.

ADDIO SOUTH STREAM?

Il gas è russo. Ma la tecnologia e parte dei capitali necessari per la costruzione dei tubi che lo porteranno nell’Unione Europea battono bandiera tricolore. C’è molta Italia, infatti, nel progetto South Stream: fin dalla sua nascita, oltre quindici anni fa, visto che del consorzio proprietario dell’infrastruttura ha sempre fatto parte il gruppo Eni, di cui detiene il 20 per cento delle quote, ricorda oggi Repubblica. E’ in particolare la controllata in fase di dismissione da parte del Cane a sei zampe, ovvero Saipem, ad avere un ruolo preminente: la gara internazionale per la costruzione della prima linea del gasdotto – che dalla costa russa della Crimea approderà in Bulgaria – è stato vinta proprio da Saipem, la società di ingegneria controllata proprio da Eni. Un contratto da 2 miliardi e 400 milioni per realizzare e, soprattutto, posare i tubi sul fondo del Mar Nero, a profondità mai raggiunte in precedenza.

QUI ITALIA

In Italia l’annuncio di Putin non è arrivato del tutto inaspettato. Anche perché non è stato un caso che la scorsa settimana il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, ha sottolineato che il progetto non era ritenuto più strategico, a differenza ad esempio del Tap, proprio per una maggiore diversificazione geo-economica sulla quale punta il nostro Paese. Ed è notoria l’intenzione dell’Eni di spostare le attenzione dall’est all’ovest e all’Africa.

LE RASSICURAZIONI DI DESCALZI 

Descalzi, parlando con i suoi più stretti collaboratori, ha fatto sapere che non ci saranno ripercussioni sulle forniture in Italia: con Gazprom c’è un contratto che assicura 20 miliardi di metri cubi sui 130 di approvvigionamenti totali del gruppo, scrive oggi Repubblica. La società italiana (43% Eni) ha in tasca un contratto di 2,4 miliardi di dollari per la costruzione del tratto sottomarino del South Stream, la «corrente del Sud». In qualche modo la sua posizione è sicura, sottolinea il Corriere della Sera in un articolo di Stefano Agnoli: se l’opera dovesse saltare scatteranno le protezioni contemplate dal diritto commerciale internazionale. “Altrettanto sicura è l’Eni – aggiunge il Corsera – che possiede il 20% della società che ha affidato l’incarico di costruire il tratto offshore (la russa Gazprom ha il 50%, la francese Edf e la tedesca Basf il 15% ciascuno) e che da tempo ha ridimensionato il suo impegno a non più di 600 milioni di euro. Il gruppo di Claudio Descalzi dal 2012 può avvalersi di un paio di clausole che gli consentono di vendere le sue azioni a Gazprom e di abbandonare senza danni la partita”.

VERSO LA TURCHIA

Eni potrebbe avere un mancato incasso – scrive Repubblica – se Putin confermerà la decisione di mandare più gas in Turchia, visto che passa dal gasdotto Blue Stream (che a sua volta passa sotto il Mar Nero ma per un tragitto molto più breve). La cui proprietà è condivisa al 50 per cento con la solita Gazprom con uno sconto del 6 per cento sul prezzo attuale. Ma da questa via potrebbe arrivare la compensazione per Saipem: se il Blue Stream dovesse essere rafforzato con una seconda linea, a chi potrebbero essere affidati i lavori?

I MOTIVI DEL RITIRO

A prima vista – sottolineano oggi i principali quotidiani – si potrebbe dire che al di là degli strali verso l’Ue sia proprio l’effetto delle sanzioni finanziarie (e tecnologiche) occidentali a spingere il presidente russo alla cancellazione del progetto, il cui costo è lievitato negli anni fino a 23,5 miliardi di euro. Una cifra non indifferente per chi, come la Russia, ha visto ridursi da giugno il prezzo del barile del 40% (gli introiti da greggio coprono metà del budget statale) e il rublo deprezzarsi di un terzo da inizio anno. E così, dopo che il colosso del petrolio Rosneft ha dovuto rinunciare alle prospezioni nell’Artico con la texana Exxon, ora sarebbe il turno di Gazprom tirare la cinghia. Una serie di elementi che contribuirebbero a comporre uno scenario di crescente difficoltà dell’orso russo, messo sempre di più con le spalle al muro.

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