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Perché Riccardi consiglia il metodo Montini a Papa Francesco

Il più grande (e grave) problema del Papa, oggi, è il suo governo. L’ha scritto sul Corriere della Sera Andrea Riccardi, storico nonché mente e cuore pensante di Sant’Egidio. “La sintonia con lui non sembra forte” visto che “esiste un gruppo di vescovi e cardinali critici sull’agire del Papa”. Parole vere, verissime, ma che si direbbero condite con una buona dose d’eufemismo.

CLIMA FREDDINO?

Il fatto è che tra Francesco, vescovo sudamericano trapiantato in quella Roma che mai ha frequentato con gioia o interesse – celeberrime sono le sue mancate partecipazioni a riunioni plenarie e concistori per malanni di varia natura, e i “ministri” che compongono la curia – il clima è più o meno gelido. Va da sé che ci siano elementi su cui può contare, in sintonia con lui, anche perché da lui nominati (il prefetto del Clero, il diplomatico Beniamino Stella, e il segretario del Sinodo dei vescovi, Lorenzo Baldisseri, ad esempio) o qualche anziano cardinale che anche nel Conclave fin dal principio s’è messo sulla scia che ha portato Jorge Mario Bergoglio all’elezione. Ma il resto è alquanto fluido.

LA SORTITA DI PAROLIN

Lo stesso Pietro Parolin, cardinale segretario di Stato, ha lasciato basiti molti porporati spettatori quando al Sinodo dell’ottobre scorso s’è alzato in piedi nell’Aula nuova per criticare la decisione della Segreteria generale di non rendere note le relazioni dei gruppi linguistici che avevano messo nero su bianco centinaia di osservazioni alla relazione intermedia post disceptationem. Il Papa, quel giorno, era presente. E forse non si sarebbe aspettato di vedere Parolin prendere la parola per avallare le tesi di George Pell e Raymond Leo Burke, tanto per fare due nomi. Nomi non casuali, perché è da questi ultimi che si sviluppa il cosiddetto fronte conservatore che s’oppone all’agenda bergogliana.

CHE SUCCEDE TRA PELL E KASPER

Si dice, nelle non più tanto segrete stanze vaticane, che Francesco si sia pentito d’aver nominato Pell in un posto così importante come la neonata Segreteria per l’Economia. Glielo avevano descritto come un manager di grandi capacità, il “ranger australiano” capace di resistere a ogni pressione. Non gli avevano raccontato, forse – rimarca qualche osservatore malizioso – che Pell è anche uno dei più illustri esponenti della “corrente” cardinalizia tradizionalista. Fermo sostenitore della messa antica, contrario a ogni aggiornamento della dottrina e della prassi pastorale alle mode del tempo, è stato nei mesi scorsi tra i più convinti oppositori alle tesi perorate dal cardinale Walter Kasper, colui che fa “teologia in ginocchio” e che il Papa ha citato nel suo primo Angelus dalla finestra del palazzo apostolico. Pell, insomma, non è poi tanto differente da Burke, notava un vecchio lupo curiale prossimo al pensionamento per raggiunti limiti d’età. Tanto che stupì non pochi la nomina del porporato australiano, che già qualche anno fa aveva rifiutato di venire a Roma per diventare prefetto della congregazione per i Vescovi.

QUESTIONE MULLER

“Francesco non fa l’unanimità”, scrive Riccardi: “Rispettoso e non fazioso, ha cambiato poche persone in curia: i titolari del clero e della segnatura apostolica, oltre che il segretario di stato”. Tradotto: ha reso inoffensive le loro eminenze Piacenza, Burke e Bertone. Ma i problemi restano, al punto che la situazione è “simile a quella di Giovanni XXIII, che ebbe contro il cardinale Ottaviani del Sant’Uffizio e altri”. Anche stavolta il titolare del Sant’Uffizio non risulta propriamente in linea con il verbo papale, tanto che da più parti nei mesi scorsi s’è ventilata la possibilità di vedere presto pubblicato l’avvicendamento di Gerhard Müller (o una congregazione curiale di minor conto o la sede di Berlino, si mormorava). Probabile che alla fine rimanga alla Dottrina della fede, ma è chiaro che tra lui e il Pontefice il feeling non è quello che s’ebbe tra Giovanni Paolo II e Joseph Ratzinger.

METODO MONTINI?

La soluzione, spiega Riccardi, c’è. Basterebbe, tutto sommato, fare quanto fece Montini negli anni Sessanta: “Togliere il partito romano dal governo”. Anche perché le verniciature stagionali non bastano, anzi: il rischio è quello di fare più danni: “Ci si limiterà ad accorpare qualche dicastero, come si fa alla nascita del governo in Italia? I cambiamenti devono riguardare soprattutto aria nuova, meno clericale, nello stile di governo, visioni e nuovo personale”. Facile a dirsi. C’è riuscito, in passato, solo Paolo VI, con tutto quello che ne conseguì. Francesco paga il fatto di non avere una squadra sua, di essere paradossalmente “solo”. Preda facile per il boa curiale.


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